Il padre è artificio
Nella letteratura del Novecento l’immagine del padre ricorre in modo strategico e spesso è intrisa di valori metaletterari.
Confrontarsi con il padre significa infatti affinare la propria identità all’ombra della tradizione, di ogni tradizione. Il padre non è natura, come non è natura l’arte – sebbene ambisca alla conquista della naturalezza.
Sull’argomento, un libro che mi sta a cuore è il celebre Il gesto di Ettore, di Luigi Zoja, che ha un sottotitolo molto esplicito: Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre.
Rileggo qui con voi questa pagina, che anni fa mi ero annotato e che mi è capitata di nuovo tra le mani:
Sarà bene aver chiaro questo fatto, che potremmo chiamare il paradosso del padre. Esso può essere riassunto così. Di regola, la madre sarà valutata come madre per quello che fa con il figlio: compito grande, certo, ma chiaro e identificabile. Invece il padre non è padre solo per quello che fa con il figlio, ma anche per quello che fa con la società: e le leggi che regolano questi due spazi di azione sono le stesse.
Il «paradosso del padre» è tanto personale, psicologico, indipendente dalle epoche, quanto pubblico e storico. Al centro della civiltà patriarcale europea, penetrata dappertutto prima con la colonizzazione e poi con la globalizzazione, sta infatti anche un secondo paradosso, che altro non è se non la faccia collettiva del primo. Questa civiltà ha adottato come credo il Cristianesimo, e contemporaneamente si è diffusa «darwinianamente», con la forza. Cioè con la guerra, la rapina e la desertificazione della natura, lo sfruttamento e la sottomissione dei popoli più deboli o semplicemente più pacifici: con la trasgressione planetaria dei comandamenti «non uccidere», «non rubare», «non desiderare la roba d’altri». In questo senso proprio la civiltà europea, che ha sparso la razionalità sulla Terra, parte da un centro profondamente irrazionale. Come il padre individuale, il suo patriarcato oscilla tra legge dell’amore e legge della forza, ed è ben lontano dal trovare una sintesi.
[…]
Il padre è costruzione, il padre è artificio: diversamente dalla madre, che continua in campo umano una condizione consolidata e onnipresente ai livelli che contano della vita animale.
Il padre è programma – forse il primo programma –, è intenzionalità, è volontà (potrebbe corrispondere all’invenzione della volontà?) ed è, quindi, autoimposizione. Questa sua artificialità e, data la nascita «recente», questa sua poca esperienza, portano con sé uno svantaggio inevitabile, come la mela il verme o la rosa la spina. Al di là delle apparenze imposte dalla cultura patriarcale, rispetto alla madre il padre è molto più insicuro della propria condizione.
Anche se ci limitiamo agli animali comparsi per ultimi nell’evoluzione, i mammiferi, in zoologia femmine e madri sono sempre state la stessa cosa: la femmina sa come comportarsi da madre. I mammiferi maschi, invece, sono stati tali pressoché ininterrottamente senza essere padri: su centinaia di milioni di anni, solo nella specie umana e nelle ultime decine o centinaia di migliaia si può ipotizzare una condizione paterna, fabbricata senza l’aiuto di un istinto corrispondente.
In pratica, non l’evoluzione animale ma solo la storia (nel senso più vasto, che include la preistoria) e l’esistenza psichica hanno dato al maschio la qualità di padre: ed egli la stringe con più rigidità, diffidenza, aggressività e con meno spontaneità di come la madre stringe la condizione sua. Perché se solo la storia gliel’ha data, la storia se la può riprendere. Perché se non l’ha ricevuta dalla natura, ogni maschio la deve imparare nel corso della sua vita, e nel corso della vita può dimenticarla nuovamente. È proprio con questa dimenticanza che bisognerà confrontarsi.
Se il padre è più aggressivo e rigido della madre, con i figli e con il mondo, questo non corrisponde a una malattia personale di certi padri e neppure alla degenerazione di certe epoche – per esempio al sopraggiungere del patriarcato borghese – ma alla sua condizione vera, strutturale, originaria. Corrisponde alla sua natura, si potrebbe dire, se non fosse che la natura del padre è appunto il superamento di ciò che di solito intendiamo per natura.
Il padre dunque – lo sapeva già il mito, lo leggeremo addirittura in Omero – porta un’armatura, aggressiva e difensiva, anche quando abbraccia il figlio. Il fatto che questo abbraccio sia freddo e che il figlio vi reagisca con meraviglia o con spavento non è quindi un incidente eccezionale: è nella natura delle cose.
Abbiamo così indicato un sentimento non confessabile di insicurezza, un’ambivalenza interna del padre. Essa corrisponde a quella esterna – alle aspettative ambivalenti dei figli verso di lui – che abbiamo chiamato «paradosso del padre».
(Luigi Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Torino, Bollati Boringhieri, Nuova edizione 2000)
Ho cercato, poco tempo fa, di esporre a un piccolissimo e ristrettissimo pubblico la mia personale idea di cosa comporti scrivere poesie in quanto padre. Si pone il problema dell’eredità. Irretito e limitato e minato come sono da un sentire la vita come già terminata, intossicata da questo come da tanti altri stereotipi del novecento – che per altro non fatico minimamente a percepire come reali e dai quali non vedo scampo – il problema di quale sia la mia eredità ( qui intesa in quanto Parola, non in termini di denaro o beni materiali ) e dunque che cosa io abbia ereditato a mia volta dalla poesia, è spinoso e doloroso. Forse sono incapace semplicemente di discernere il mio veleno da quello degli altri. In ogni caso, a livello di poesia ( della mia, piccola e immatura quale è) se non è lamento e denuncia di un continuo mancare, non saprei cos’altro potrebbe essere; certamente non visione altra, superiore, spirituale, nessun tipo di scavalcamento, nessuna tradizione dunque nessuno specchio. E mi fa male perché mio figlio è questo ciò che legge ( e sente ) di me. Anche nelle poesie in cui parlo di noi, l’amore paterno, io in quanto padre di questo essere nel quale vedo non solo la mia morte ma un altro abitante nel deserto, il legame che ci unisce, nel suo insieme, è come marchiato dunque da uno scorrere inesorabile del tempo, da una mia impossibilità di fondo a testimoniare una vita degna di essere vissuta.
Arrivo al massimo a concepire la vita come desiderio in atto,
dove l’essere coincide con il fare. Ma questo in teoria, mai in una poesia.
Sono sicuro che sto vedendo il capello e che mi sfugge la trave.
Più che altro lo spero.
Il fatto è che una vita è troppo poco per chiunque.
Ciao e grazie.