Il poeta non ha identità
E questo che c’entra con la scrittura? Uno: lavorare sullo stile per operare sul Sé.
Qui non ci sono ricette, si brancola nel buio. Già una poetica esiste solo a posteriori, figuriamoci un’ultrapoetica. Azzardiamo appena qualche ipotesi, vagheggiando con il silenzio annodato alla giugulare.
Se un’ultrapoetica non è una poetica solo un po’ più complessa, e se il cammino verso il nuovo ha bisogno di passaggi graduali, mi interessa una poesia che non è frutto solo di dominio. Quando scrivo, mi piace capire quando è il momento di lasciare andare il testo, in determinati frangenti rivelativi. Se a un certo punto perdo il controllo, ma il testo segue una sua pista, mi traina da qualche parte, vuol dire che una logica c’è.
Nulla di straordinario: qui non si tratta che di una iniziazione al Semplice, a ciò che tutti sappiamo e ci teniamo nascosto. Se fossi ancora un critico, parlerei della teoria della formatività di Pareyson, dell’opera che si fa seguendo leggi che scopre nel suo farsi, che non le preesistono. Altrimenti, non c’è creazione.
Mi prefiguro quindi un testo dinamico, sghembo, sbilanciato. Diciamo anche imperfetto, con qualcosa di problematico, di irrisolto. Di non assoggettato, perché l’opera appunto si divincola dal soggetto. Che non è scomparso, si badi bene, altrimenti siamo nell’illusione, ben novecentesca, di un io demiurgo che muove i fili, per quanto nascosto, o di scritture automatiche che sono schiave di regole inconsce, cioè che non hanno ancora attraversato la coscienza per sfondare il limite di saturazione che abbiamo raggiunto. No, non un soggetto scomparso, ma fluido, mobile (non soltanto grammaticalmente, che è parte dell’equivoco sperimentale), presente ovunque ma senza un profilo fisso.
Il poeta non ha più un’identità.
(E noi ancora qui a difendere l’onorabilità dei nostri nomi…)
(L’opera scelta come copertina è di Wanda D’Onofrio.
Cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa)
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