La violoncellista, di Michael Kruger
Il 2002 è stato un anno importante per la promozione di Michael Krüger in Italia. L’autore tedesco (nato in Sassonia nel 1943) poteva allora annoverare fra le proprie opere un’antologia poetica per Donzelli (Di notte tra gli alberi) e un romanzo (La violoncellista) edito da Einaudi, che in precedenza aveva già dato alle stampe Perché Pechino? nel 1987. Ma si possono ricordare anche altri testi poetici inclusi nel numero di settembre della rivista «Atelier» di quell’anno, proposti nella versione di Federico Italiano, per segnalare la penetrazione capillare, a più livelli, della sua opera vasta e poliedrica.
La violoncellista è la storia di un compositore cinquantenne che si garantisce una vita agiata con i proventi che gli derivano da sigle per serial televisivi divenute veri e propri “tormentoni” fin oltre oceano, mentre egli nutre ancora l’ambizione di ottenere successo come compositore di avanguardia: pensa infatti a un’opera su Mandel’štam, che non riesce a scrivere, mentre l’esistenza trascorre in uno scialo quotidiano fatto di ritualità nevrotiche, di oziose letture e di insulsaggini varie. Il decoro che ancora poteva attribuirsi, si dissolve con l’arrivo improvviso di una conturbante ventitreenne, figlia di una cantante ungherese frequentata in gioventù. S’innesca su questa traccia la narrazione della vita e delle segrete aspirazioni di un personaggio tipicamente novecentesco, inetto, sopravvissuto a due matrimoni, incapace di mettere ordine nella propria esistenza dominata dal caso, invasa da individui che s’intrufolano come ospiti momentanei, ma che prendono possesso di ogni spazio come tiranni, senza colpo ferire. È il caso soprattutto della giovane che, con la scusa di terminare gli studi in conservatorio, si presenta a Monaco portandosi appresso i fantasmi di una relazione che il compositore ebbe con sua madre, relazione intensa ma dissipata per la vacuità morale di tutti i personaggi coinvolti, straniti dalle trame di una società internamente corrotta, assuefatta all’inesorabile declino politico e culturale dei paesi dell’est. Ma il rapporto, forse addirittura incestuoso, con questa sorta di Lolita europea, è solo il pretesto per la rappresentazione del vero motivo del romanzo: il sentimento della decadenza dell’arte e della cultura non soltanto nei paesi socialisti (verso il cui mondo si nutre anzi una sottile nostalgia), ma nell’intero occidente capitalista, che pure offre al protagonista l’opportunità di una vita comoda e invidiabile, da perfetto borghese.
Così Osip Mandel’štam, soggetto principe delle sue aspirazioni artistiche, insieme ad altre figure di scrittori come Anna Achmatova, Marina Cvetaeva o Paul Celan che vengono sovente richiamati alla memoria, s’innesta nei pensieri del compositore e nelle pieghe delle sue velleitarie ambizioni come fulgido esempio di dirittura morale e non soltanto di grandezza letteraria. Ma lo splendore di tali modelli filtra attutito sulla scena opaca, occupata da una gallerie di comparse grottesche, di ogni estrazione sociale: un tassista dal volto deturpato che assomiglia a un uccello, una edicolante nana e baffuta, ma anche i parenti di Judit (la giovane figlia di Maria ora amante della ex fiamma della madre), che forse sono delle spie, oppure il famoso compositore italiano dalle mille stranezze, i critici marxisti o decostruttivisti, temuti e venerati, che non hanno null’altro da annunciare nelle loro scarne e incomprensibili pagine oltre all’insignificanza dell’arte nel mondo contemporaneo, o ancora il filosofo espulso dall’università e tante altre figure incrociate tra conferenze, occasioni mondane, bettole, appartamenti fetidi e disabitati.
Eppure, persiste una minima forma di resistenza del protagonista allo svilimento del mondo, benché ambigua: nella sua remissività, si cela anche la tenacia del sogno.
«Che cosa accadrebbe se la mia generazione cessasse di comporre musica? Il mondo sarebbe certo più povero». Per questo, nonostante il confronto frustrante con la giovane amante (e il coro dei suoi abietti amichetti) che lo espone a svariate angherie e denigrazioni, egli tiene accesa, sotto la cenere dell’ispirazione che non si annuncia nemmeno, l’attesa di un’opera grandiosa, una sorta di ennesimo prototipo d’arte di una cultura umanistica che non muore, che non deve morire, nonostante il mutare dei tempi, nonostante le generazioni che incalzano arroganti e spregevoli, ma non certamente migliori, anzi, più fragili al cospetto della squallida quotidianità pan-occidentale, come dimostrerà la stessa fine di Judit. Ma si tratta di una resistenza ambigua, avvertivamo, perché anche il protagonista è in qualche modo colpevole, forse per semplice viltà, per quanto accade. Anche lui ha firmato, per salvaguardare la propria esile pace.
Correva l’anno 2002 quando La violoncellista usciva in Italia: il regesto della decadenza non era terminato allora, come non è terminato adesso.
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