Del distacco e dell’intransigenza
ovvero
Della vecchiaia
Mi considero una persona aperta al dialogo. Amo la dialettica. Mi infervoro su qualsiasi argomento intorno al quale abbia maturato una mia opinione, dal calcio liquido spinto verso il 3-2-5 sognato da Pirlo al giusto orientamento del rotolo della carta igienica da appendere. Figuriamoci quando si parla di letteratura. D’altro canto, rispetto a ciò su cui non ho un’idea personale, mi affido ciecamente a chi è al mio fianco.
Per indole, tendo involontariamente ad alzare sempre i toni della discussione, a ragionare fino alle estreme conseguenze, a procedere anche per paradossi e provocazioni. Amo fare la parte del diavolo, come si suol dire. Se mi trovo di fronte a un cattolico convinto, prendo decisamente le parti dell’ateo. Aderisco a un’opinione solo dopo aver esplorato le ragioni opposte. L’eredità biologica e l’imprinting paterno mi spingono a sembrare fanatico, arrogante, ma si tratta, a ben vedere, solo di teatro. Credo, e vigilo per quanto è nelle mie possibilità affinché sia così, di essere sempre aperto al rovesciamento degli orizzonti: non temo di cambiare opinione, anche se difendo fino all’ultimo il mio baluardo. E amo le persone aperte, che non esitano a proporti una critica, ad affrontarti davanti a tutti su un problema: li reputo i più leali. Così, quando io stesso avanzo un’osservazione, non è solo per amore delle idee, ma per stima della persona con cui mi confronto.
Ma ormai ho raggiunto un’età a cui il dispendio di energia non si addice più. L’ardore deve sottostare a una maggiore disciplina, e forse davvero negli ultimi anni (spero sia effettivamente così; quantomeno, è un mio desiderio) sto diventando più paziente, più capace di ascolto. Il che, paradossalmente, non significa essere più distaccato: semplicemente, i due poli, dell’indifferenza o dell’intransigenza, si sono messi a fuoco meglio. Lascio scorrere, mi concedo interventi più precisi, ponderati e perentori. E concedo loro il tempo di giungere agli effetti che necessariamente produrranno, nel bene o nel male. Senza trincerarmi, anzi, restando in mezzo al campo, vulnerabile e responsabile.
Forse intendeva descrivere un passaggio esistenziale simile anche Umberto Saba, quando, in Scorciatoie e raccontini (Mondadori, 1963, II ed., p.29), scriveva:
Arrivati a una certa età, non si può più discutere. Si può solo imparare o insegnare. Imparare sarebbe, ancora, il meglio. Ma chi può insegnare a un vecchio? Deve imparare da sé stesso, o sparire.
Il pensiero di non trovare altri giovani capaci di insegnarmi, però, mi terrorizza. Per fortuna, il mio mestiere mi offre un’esperienza quotidiana gratificante: con gli alunni c’è sempre da imparare, se si è presenti a sé stessi e si legge la situazione dal punto di vista altrui. Per non parlare, poi, dei colleghi più giovani e arrembanti.
Il problema sorge in letteratura. Ovviamente, il cretino che non capisce sarò io, ma la sensazione di non scorgere nulla di interessante nel nuovo che è caduto sotto al mio sguardo, mi spaventa. E dico mi spaventa perché questo non è affatto un giudizio surrettizio sulla letteratura contemporanea, ma sulla fatica e l’intossicamento che deriva dal dover imparare da sé stessi. Quanto alla possibilità di sparire, considerata la società liquida, in attesa anche del calcio liquido, direi che siamo già tutti evaporati un istante dopo aver brillato.
Temo dunque che nei prossimi decenni mi aspetta un inquieto, ma silenzioso confronto con i classici, e poco altro. Il resto ormai mi pare chiacchiera vana.
Per convincermi a leggere una raccolta inedita, un romanzo fresco di stampa, l’ultimo sconvolgente saggio sulla nostra civiltà, occorreranno valide ragioni. In caso contrario, mi fiderò del primo sguardo, del fiuto ormai affinato.
È inutile, scriveva Walter Siti, perdere tempo a discutere con gente che, cent’anni al massimo, sarà morta. Discutere è un’ossessione necrofila.
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