Bontà o cattiveria

Bontà e cattiveria degli scrittori

Ho la fortuna di conoscere e persino di annoverare fra gli amici alcune persone di una bontà disarmante. Non ricordo di aver sentito uscire dalla loro bocca la benché minima cattiveria su qualcuno. E non si tratta di anime candide e ingenue: sono persone che riconoscono al volo il male nel mondo, solo che non si affrettano ad appioppargli un volto. Se, all’interno di un discorso, qualcuno indica loro un aspetto negativo di altri, non faticano ad ammetterlo, ma sempre accompagnandolo con le giustificazioni più ragionevoli e con supposizioni plausibili a loro parziale discolpa. Perché difficilmente, nella visione di tali persone profondamente buone, qualcuno è malvagio; semmai, si sarà reso responsabile di una malefatta a causa delle circostanze. E anche quando ci si trova d’accordo in simili osservazioni negative, riescono a giudicare con garbo pari alla schiettezza. E via, subito a non dare troppo peso al brutto, cercando nuove cose belle con cui intrattenersi.
Provo ammirazione e a tratti invidia per questi amici. Vorrei essere come loro. Ho l’impressione invece che su di me le brutture attacchino facilmente, che debba grattarmele via con foga. La critica mi esce spontanea e diretta, spesso mi mordo la lingua troppo tardi. Non conosco l’arte della discrezione. Sono eccessivamente diretto. Eppure – mi conosco – non mi comporto così per cattiveria gratuita. Anzi, provo un contraccolpo di timidezza e di paura dopo aver indicato ciò che ai miei occhi è una stortura. Devo ammettere che, in qualche modo, è una mia indole.

Mi piace mettermi nei panni dell’ateo se discuto con un baciapile, mi sento un mistico con chi crede di non credere. Spesso, non vado d’accordo nemmeno con me stesso.

Fra gli scrittori, però, nutro molti sospetti nei riguardi di individui altrettanto buoni. Ne ho conosciuti molti che non si lasciano sfuggire una critica verso chicchessia. Mi suscitano in questo caso più perplessità che ammirazione. E mi chiedo perché.
Uno scrittore non può non avere le sue convinzioni, mi rispondo, intorno a ciò che è bello e in merito alle vicende letterarie, per la stessa ragione per cui non può non avere uno stile. Dunque, se uno pare sempre buono suppongo debba, più o meno, inquadrarsi entro una di queste tipologie:

  1. è uno scrittore ingenuo, senza nerbo, più buonista che buono; detto alla mia maniera, secca e precisa, è uno che si crede uno scrittore, ma è solo (solo?! ce ne fossero di più…) una brava persona;
  2. è un furbacchione, uno stratega, un opportunista, un mestierante;
  3. è veramente una grande anima e, di conseguenza, un genio letterario.

Spero vivamente di avere la capacità di riconoscere qualcuno appartenente alla terza categoria, qualora mi capitasse la ventura di incontrarlo (mi è già successo?).
Ora, se la prima categoria si spiega da sé, la seconda merita qualche delucidazione.
Se lo scrittore non può, per sua stessa natura, non avere un sistema di valutazione, deve necessariamente elaborare preferenze, riconoscere le mistificazioni e reagire. Orbene, per quanto senza acrimonia e senza investirsi di funzioni critiche a cui magari non ambisce, finirà quindi per esprimere giudizi, trattando di letteratura. Chi fa scientemente slalom, o sceglie solo bersagli fittizi, ha una precisa strategia. Lo fa per calcolo, insomma, non per bontà.
Ma esistono bersagli fittizi? Certamente. Basta scegliere icone innocue, perché appartenenti a un’altra categoria (quantitativa, al più di genere, ma non qualitativa). Per esempio, sarebbe scontato, tra poeti, solidarizzare con una stroncatura su Gio Evan o Franco Arminio, come in narrativa sminuire Sveva Casati Modignani (o chi per essa) e Melissa P. (ma l’ideale è sempre criticare autori defunti o stranieri).

È come per certi programmi tv molto popolari: più se ne parla, anche male, e meglio è. Alla fine li guardano soprattutto quelli che si divertono con la denigrazione e il pettegolezzo, sprofondati nel divano.

La prima regola per lo scrittore appartenente alla seconda categoria è quella di evitare, tassativamente, di muovere delle critiche per iscritto. Verba volant, per fortuna. Ma siccome c’è sempre chi riporta che cosa qualcuno una volta ha detto, anche le chiacchiere devono sottostare a immediata autocensura. Siccome però prima o poi il corpo ha fisiologicamente necessità di esalare un po’ d’aria stantia, il nostro si accerterà di sfogarsi solo in circostanze ben controllate, quando insomma l’interlocutore è del tutto succube e innocuo, oppure quando è certo di mettere in cattiva luce un rivale dell’interlocutore, che in questo caso si vuole compiacere.
Gli scrittori buoni sono i don Abbondio delle lettere. Evitano il confronto con i nobili (ovvero i classici), cercano la quiete a buon mercato e la popolarità più facile.
Ma don Abbondio, alla fine, era un buono o un cattivo?
Era un pusillanime, uno che si era fermato prima del bivio.
Ho il sospetto che simili scrittori nascondano, nella loro opera, una sorta di tarlo morale. Ovviamente, non si tratta dei contenuti, ma della loro disposizione verso la materia trattata, qualsiasi essa sia. Una sorta di inautenticità… Quindi a dirla tutta, traendo le estreme conseguenze, esistono solo scrittori cattivi (i geni restano fuori categoria).
Ma, a pensar questo, mi sto solo smentendo, dimostrando nei fatti la mia naturale malignità. Non sono d’accordo nemmeno con me stesso, appunto. Però mi riprometto per l’ennesima volta di imparare, se non a tacere, a muovere osservazioni con più stile, con più gentilezza.
Su Amazon vendono i silenziatori?

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