L'amore e tutto il resto

Che cosa può contenere un libro di poesia

Che cosa c’è, tra le paginette del mio libro?

C’è una stagione letteraria memorabile fatta di amicizie, e c’è il suicidio di quella stagione, e la fine dell’amicizia. Ci sono decenni di invernale, paziente solitudine. C’è il silenzio. C’è la trama di una famiglia che si disfa, un’infanzia che non può essere documentata da alcuna fotografia – una delle poche, serve per compiere uno scatto, e fuggire. In attesa, però, di un ritorno definitivo. C’è la fuga di un bambino che in seminario diventa uomo, e ripensa al padre che diventava uomo in un’Italia ormai perduta, nel mezzo del boom economico e di speranze vaghe poi tradite. Ci sono medici che si sentono impotenti, vicini di casa che curano il giardino pensando al figlio che non c’è più. Ci sono i bambini, il piccolo popolo della scuola, con i loro luminosi errori. Ma ci sono anche i bambini del Kosovo, durante la guerra, o quelli trucidati in Ossezia, proprio ad avvio di anno scolastico. C’è un angelo, unico nel regno dei cieli, perché ha un sesso e un nome, e chi scrive può riconoscerlo come un fratello. C’è una visita al cimitero, con un’intera società di morti a far da coro, mentre la sconcia locandiera non potrà zittire i morti prematuramente e impedire che la vita rivendichi la propria estraneità al suo dominio, nel perpetuarsi della discendenza. C’è anche l’amore del titolo, certo, con tre nomi di donna che nessuno sa leggere, sebbene siano lì, scolpiti tra le pagine. C’è l’arte che si rivolge contro il suo autore, il quale pretende di dominare troppi fantasmi e chiede troppo alla sua stessa arte e dovrà, per questo, essere punito. C’è la fiducia, nonostante tutto, in un luogo vergine da abitare, in un primo passo da compiere su Marte. C’è una donna distesa, ma mentre l’ecografia parla di vita, il padre ha gli orrori della storia negli occhi. C’è la guerra in Iraq. C’è tutto un Novecento da cui traslocare. E c’è la paternità che si svela a sé stessa, scrivendo il destino sulla nuca del figlio, partecipando così alla Creazione – indegnamente. C’è quindi una nuova infanzia, quella che invece dovrà essere documentata dalla poesia, perché diventi docile e narrabile: in questo modo, nella catena del sangue si trasmetterà, si spera, solo il bene, si interromperà la maledizione del nome. C’è questo rito da espletare, nonostante la storia abbia sempre un volto berlusco e non conceda tregua. C’è la rinuncia a sé stessi, mentre la genitorialità si esaurisce, si compie lo stacco, e padri e madri diventano vecchie incredule divinità abbandonate, perché sono i figli, alla fine, a darci alla luce, e mai l’opposto. C’è il tentativo di individuare, nel male di vivere, il bene che lascia una traccia definitiva – sebbene l’alieno (che poi è qualsiasi lettore), in chiusura del libro, proverà a leggere, ma non riuscirà a capire (ma lo scrittore sapeva, fin dalla soglia del libro, di lanciare messaggi a Marte).

E tutta questa materia – troppa, forse, per quanto si tratti di un librino che attraversa quasi trent’anni – è legata in canzoni, ballate, sestine, poemi. Endecasillabi e settenari, per lo più, nel caso delle strutture libere. E rime nascoste, strutture non esibite. Camicie di forza, per trattenere la follia. Per ammansire i demoni.

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