Complici dei nostri becchini (lettera a Flavio Santi)
Finalmente mi appresto a leggere il romanzo di Flavio Santi (La primavera tarda ad arrivare), uno dei talenti più puri della mia generazione. Così riprendo con lui il filo del discorso, che si era interrotto qualche anno fa. Nel 2012 (le date esatte sono: Senigallia 29 luglio, Talonno 9-14 agosto) gli scrissi questa lettera aperta, poi apparsa su “Atelier”, senza peraltro ottenere risposta. Ma forse una risposta non serve e, in ogni caso, per quel che mi riguarda, il dialogo continua. Appena terminata la lettura, offrirò anche le considerazioni sul suo recente noir.
Lettera aperta, anzi piuttosto chiusa e potenzialmente infinita, ma soprattutto per niente paracula a Flavio Santi
Caro Flavio,
comincio a scriverti stoppando la lettura del tuo Aspetta primavera, Lucky alla fine del capitolo XV. Di pagina in pagina il desiderio di scriverti è montato come panna e, proprio perché avrei troppe cose da esprimere, questa lettera risulterà probabilmente confusa, ellittica, pubblica all’apparenza, in vero alquanto privata, anche per vari contrappunti che coglierà solo chi ha letto il tuo libro (e tanto peggio per chi non l’ha fatto), ma anche per qualche esperienza che in questi anni abbiamo condiviso. Anche le condizioni in cui sto scrivendo non sono favorevoli alla lucidità: sto leggendo in spiaggia, dopo una notte passata a guidare, e siccome sai bene quanto «La notte [sia] fatta per gli uomini che si svegliano di colpo nel cuore della notte», mentre magari «c’è una pace meravigliosa» a tal punto che si può essere «lucidamente disperati», ti risparmio i miei rosari del vaffanculo recitati dalla tangenziale all’Adriatica. Ti offro però solo un ricordo, fra i tanti riemersi in mezzo ai fanali galleggianti nel buio. Il nostro Simone mi confidava che, in simili viaggi autostradali, trovava il modo di riuscire un pochino, guidando, a dormire: diceva, nei lunghi rettilinei, di tirare giù il finestrino, sporgere la testa e chiudere gli occhi, lasciando andare l’auto così, giusto per mezzo minuto, il tempo di ripigliarsi un poco… (Sei mai stato in auto con lui? Forse può dire di averlo conosciuto davvero solo chi ci è stato…)
Comunque, mi sono svegliato alle tre di notte e, come mi capita in questi casi, non ho avuto tentennamenti. Ho sbrandato moglie e figli, e via. Meno di due ore ed ero a Bologna, tanto da dover poi rallentare per forza, per non rischiare di fare colazione in spiaggia con i gabbiani.
Non per mero lirismo ti illustro il contesto di questa lettera. Voglio che tu mi veda, steso sul lettino con in mano uno struzzo che affonda la testa nella terra, solo sotto un sole cocente (moglie e figli, con la scusa di lasciarmi dormire un po’, si sono concessi la prima passeggiata sul bagnasciuga), mentre la vicina di ombrellone legge Gli inganni di Locke Lamora di Scott Lynch. È un’istantanea che non ti dispiacerà.
(Ho scoperto in seguito il banchetto in spiaggia dove lo avrà comprato per 4 euro. Il cingalese che lo gestisce non ha accettato i 3 euro che avevo al momento con me – mi ha spiegato che ci guadagna già troppo poco: si rifornisce degli scatoloni di libri a Napoli per 200 euro – e così mi è sfuggito Il paese delle spose infelici di Desiati: al mio ritorno, la copia era già stata presa da qualcun altro. Segni del destino?)
Anzitutto, dovrei giustificarmi del ritardo con cui ti leggo. Perché ci ho messo un anno e mezzo ad affrontare il tuo lavoro? Da una parte, speravo probabilmente di riceverlo. I libri, però, è giusto comprarli (e le riviste?), soprattutto quelli degli amici, e a questa regola mi sono sempre attenuto, perciò alla fine ho ordinato anche questo tuo ultimo. Ma quanti sarebbero i libri da procurarsi? Adesso leggono pure i figli (che «crescono come cattedrali», mi diceva Simone: è un’altra sua frase che mi punge ogni volta che li guardo) e in casa ho scaffali pieni della serie “Gol!” di Garlando o quella di “Scooby-Doo”. Ma forse la ragione è un’altra e va cercata in certi dubbi (che a suo tempo ti espressi) sul romanzo precedente, corroborati poi da qualche impressione avuta quando ti ho ascoltato presentare il libro a Fahrenheit. Ci tornerò su meglio, forse.
Da che parte disbrogliare la matassa di pensieri sul tuo lavoro? Partiamo dal mio tallone d’Achille, la questione generazionale. Con te posso permettermi di non preoccuparmi troppo di chiarire il solito equivoco in cui tutti incappano. L’approccio generazionale alla letteratura è, in sé, una prospettiva paracula che non mi interessa, al più sarà utile a qualche critico. Non volevo tornare su temi che ormai mi danno noia, ma Aspetta primavera, Lucky si presenta esplicitamene sotto questa etichetta. Dalla quarta di copertina: «Una riflessione spiazzante sul Potere. Il ritratto crudo e lacerato della prima generazione di operai-intellettuali». E tu stesso, al centro dell’opera: «Una generazione più inutile della mia non l’ho mai vista. Siamo alla frutta. Questi hanno paura della loro stessa ombra. Li passo in rassegna e un po’ mi fanno pena. Pavidi, calcolatori, bugiardi, menefreghisti, freddi e apatici, subito pronti ad assolversi e giustificarsi. La generazione inutile». Altro che furbata, la questione generazionale era stata sollevata pretestuosamente per torcere il collo proprio alla letteratura paracula, per denunciare l’ipocrisia e l’omertà che crea il falso storico in cui viviamo. Questa non è una mia fisima, ma un tema del tuo romanzo: «Difficile però trovare dei colleghi che vogliono sporcarsi le mani, metterci la faccia, denunciare il caso. Al tempo di Biancardi magari era ancora possibile, un po’ di solidarietà c’era, la speranza di cambiare il mondo, la fiducia nella forza del gruppo, oggi invece c’è una profonda e triste atomizzazione di quelli che sono dei veri e propri intellettuali-operai, cottimisti della cultura, stagionali del portatile, per cui ognuno fa da sé, anzi ci si fa la guerra perché se tocca a te non tocca a me, e poi io come pago le bollette? In questo un po’ del sano comunismo tanto invocato da Giulia mi manca, è vero. Chiamatelo comunismo, chiamatelo condivisione, comunione di intenti, orizzonte o piattaforma comune, ma in effetti ce ne sarebbe proprio bisogno». Già, ce ne sarebbe stato bisogno. Interrotta la tradizione, quella che legava verticalmente le generazioni nel mutuo riconoscimento del valore letterario (con tutte le lotte interne nella sua intrinseca varietà di esperienze), bisognava ripristinare la respublica litteratorum (uso la tua definizione) a partire in un primo momento da un livello orizzontale, certo, per poi riaprirla alle generazioni entranti, nel salutare conflitto delle divergenze, che però mettono radici su quei valori primari e indispensabili che fondano la «piattaforma comune»…
Ma questa piattaforma comune non si è creata. Nel frattempo, che cosa è successo? I pochi maestri credibili (i Raboni, i Garboli, le Corti di cui tu parli in qualche paginetta) sono morti o latitanti, messi ai margini del sistema, imbalsamati in qualche cabina dorata del Titanic sul quale siamo tutti allegramente imbarcati, liberi solo di ripetere nei loro pamphlet le solite lagne sulla fine della critica, la fine del romanzo, la fine della poesia, mentre sono loro, a essere finiti. Quindi, con il giro di marionette che si è creato («editor che sciftano da una redazione all’altra […] come le palline argentate di un immenso e coloratissimo flipper», ora impazzito anche per le ancate della crisi) la nostra generazione sta cadendo in un panico sordo, in una nevrosi paralizzata. Altro che semplice «decantazione editoriale»: ricordi ciò che scrisse, da poeta, Desiati, per il nostro convegno di ventenni? A proposito di Mario, la sua vicenda è paradigmatica, per capire che cosa ci è successo. Ha scritto un primo romanzo, per la verità piuttosto modesto, che però ha avuto la fortuna di cadere nell’oblò di un «venerabile maestro» (lo considero tale fino a prova contraria, usando le etichette di Edmondo Berselli) come Enzo Siciliano, che lo ha lanciato sulla prima pagina dell’«Unità», se non sbaglio. Aveva girato probabilmente anche a te l’e-mail con il pdf. Ora è anche lui una pallina argentata, anche se mi verrebbe da ricorrere, sempre con Berselli, alla categoria del «solito stronzo», dal momento che ha tagliato i ponti, almeno con me. Ma queste frasi non avrei dovuto scriverle. Com’è che dici tu? La qualità di un’opera è direttamente proporzionale al danno che procura al suo autore… Vallo a spiegare adesso che Mario mi è sempre stato simpatico (e voglio credere che sia ancora quel tipo leale e semplice nei cui occhi mi sono specchiato, riconoscendo la medesima fame), anche se le sue poesie non mi piacevano in modo particolare e il suo esordio narrativo mi ha deluso. Ma perché non si possono dire, queste cose? Perché dobbiamo essere tutti così ipocriti? So benissimo della sua dura gavetta, sono lieto del suo successo.
Come dici? Finisco anch’io, adesso, dentro al ritratto del tuo capitolo XVIII? No, no, mi dispiace. Io non pugnalo nessuno alle spalle (piuttosto, attacco frontalmente), non maneggio per scavalcare e guadagnare posti: sto benissimo dove sono. Non invidio affatto il viavai delle palline argentate. Piuttosto, talvolta mi punge il fianco l’indignazione, quando mi sembra che accada qualcosa di ingiusto. Ecco, guarda, adesso mi faccio male fino in fondo. Ti dico allora esplicitamente che ho dubbi sul valore delle opere di Mario, ma che ho ancor più dubbi sul mio giudizio, perché gli altri suoi romanzi non li ho proprio letti. Non ho invece nessunissimo dubbio nell’affermare che il tuo Aspetta primavera, Lucky, con tutte le perplessità di cui se non mi ingarbuglio troppo cercherò di dirti dopo, è dieci volte superiore a Neppure quando è notte.
Grazie a questi avvitamenti di pensieri, però, ho trovato la risposta. Che cosa ci è successo, mentre non siamo riusciti a costruire la piattaforma comune? Ci è successo che non siamo stati capaci di stare all’altezza dei nostri giudizi e della nostra fame di lealtà. Ci siamo frantumati per l’ansia di occupare i pochissimi posti al sole rimasti, incuranti delle nubi nere che sopraggiungevano alle spalle. Qualcuno si è fatto pescare dall’amo del successo (illusorio). Non ci siamo fidati l’uno dell’altro. Abbiamo preferito correre da soli. Del resto, lo avevo imparato molto presto, fin dai primi anni di università, quando frequentavo un amico con la comune passione per la poesia: immagini le lunghe conversazioni, le ingenuità e gli entusiasmi di quel periodo? Ebbene, non appena egli aveva cominciato a muovere seriamente qualche passo, senza che io nemmeno me ne accorgessi, mi estrometteva da tutto. «Sai, ieri sera sono andato a casa di Franco Loi per un’intervista…»: come se Loi fosse un nostro compagno di merende. Mi cercava solo quando aveva bisogno: «Che ne pensi dell’ultimo libro di ***? Mi presteresti la raccolta di ***?». Come siamo stati meschini. E la storia non è cambiata: all’uscita di Peace & Love ho scritto a vari amici miei e di Simone, anche ad alcuni ex redattori di Atelier, chiedendo un aiuto per promuovere il libro, scrivendoci su qualcosa, organizzando magari qualche presentazione. Risposta? Silenzio. Al più, qualche cenno, qualche finta di rammarico. Qualcuno ha detto di aver già fatto quel che poteva, chiudendo l’email perché indaffarato nell’organizzazione di qualche altro evento o nella stesura del suo saggio accademico. Come siamo cinici.
Il risultato è l’inevitabile ripetersi della dinamica di soffocamento che denunciavo (ero in torto?) nella generazione invisibile, quella dei “poeti nel limbo”, i fratelli maggiori che ci precedevano. Altro che semplice decantazione editoriale: qui si tratta di un’estenuante agonia, di una contraffazione lenta e dolorosa a cui non ci si è voluti opporre. Lo dico ancora insieme a te: «Questa è forse la storia di un talento che non potrà mai esprimersi compiutamente perché non ha le condizioni per farlo: non è ricco, non è di buona famiglia, non ha potenti amici di papà né accondiscendenti amanti di mammà. Non è raccomandato dall’Opus Dei, non è ruffiano, non ha tempo per i cocktail party, deve razionare le telefonate e i viaggi.
O forse questa, molto più semplicemente, è la storia di un esaurimento nervoso mascherato da talento, di un’infinita crisi di nervi che non trova altro sbocco che nelle contumelie, nelle lamentele reiterate, nelle accuse senza prove, chi può dirlo, vedremo strada facendo».
Eccolo, il dilemma dell’oracolo che non abbiamo voluto spernacchiare per tempo. Ce lo siamo innalzati da soli. Adesso, non ci resta che sorridere, mentre soffochiamo.
Oppure, possiamo scrivere. E qui entro davvero nel merito di ciò che vorrei dirti, perché, forse faticherai a crederlo, quanto ho ribadito lagnosamente finora mi è noto da anni (lo sai bene, Flavio; sai benissimo quanto cercavo di incalzare te e gli altri, in tempi non sospetti), e non mi sarei messo a scrivere per ripetermi. La scoperta che mi ha portato il tuo libro è lo scioglimento di un altro equivoco. Ti spiego.
Un tema facile, sempre a portata di penna, per un autore, è quello autoriflessivo: scrivere una storia in cui il protagonista è uno scrittore. Tema osceno, ne convengo. Perciò sommamente pericoloso e suggestivo. Vi si arrendono di solito i narratori ormai alla frutta. Recentemente, se non sbaglio, prende corpo anche in alcune opere di Baricco e di Ammaniti, pensa un po’. Ebbene, mi chiedevo, come mai mi ero messo a scrivere anch’io, con urgenza e gioia, sull’argomento? «Esaurimento nervoso mascherato da talento», mi ero detto. Siamo già decrepiti a trent’anni, noi. Poi ho letto anche Storie di Pocapena. L’arte del suicidio e il suicidio dell’arte, di Danilo Laccetti. Accidenti! Ha scritto qualcosa di analogo a quello che sentivo io, realizza anzi una possibilità che avevo intravisto, decidendo poi di percorrere una via espressiva diversa… Infine, eccomi al tuo. Ma siamo così banali? Mannaggia, ci sono episodi, frasi, persino immagini e vezzi che corrispondono esattamente a quanto ho riversato nel mio romanzo! Anche difetti, a dirla tutta, e infatti la lettura di Aspetta primavera, Lucky, mi darà una buona spinta per una revisione di certe parti. (Io, per esempio, toglierò molte delle eccessive riflessioni metaletterarie. Un capitolo come il tuo XVI, per capirci, con una narrazione tutta soltanto pretestuosa per esprimere determinate idee, lo eliminerei completamente).
Tre indizi fanno una prova, non si scappa. E abbiamo persino coperto l’intero spettro delle possibilità espressive: posto che la scrittura è inevitabilmente finzione, Danilo finge scopertamente, giocando con la deformante maschera del linguaggio, mentre io fingo di fingere e tu, invece, strizzando un po’ l’occhiolino alle odierne tendenze, fingi di non fingere, e scrivi la tua Vita agra. L’esaurimento è dunque collettivo, riflettevo. Poi ho capito: quello che abbiamo scritto (e chissà quanti altri stanno facendo altrettanto) non è più solo un tema facile quanto sociologicamente intrigante, perché fotografa la nostra inedita (sic!) condizione di precariato (Vita precaria e amore eterno: ah, ancora l’esemplare Desiati) e permette, usando lo specchio metaletterario, di togliere tanti sassolini nelle scarpe dello scrittore o quantomeno di elaborare, sulla pagina, il proprio posizionamento rispetto al mercato (puoi leggere sul web, se non l’hai già fatto, un intervento di Clotilde Bertoni dal titolo Scrittori sul mercato: interrogativi aperti e autopromozione camuffata; se lo fai, aggiungici magari qualche riflessione sui Canti del caos di Moresco), ma è il dramma di una crisi valoriale: dentro al Titanic della Letteratura Ridotta a Merce noi non vogliamo starci! Altro che invidia. Noi non saremo mai riconosciuti. Non è questione di Sentirsi nel Giusto, di credere di essere i più bravi, così, per diritto naturale. La questione è essere assolutamente certi di non poter nemmeno esistere, perché quello che vorremmo fare noi, cioè letteratura (ammesso e non concesso che ne saremmo capaci), non avrà mai pieno diritto di cittadinanza. Dicono che non abbiamo ancora scritto libri importanti, decisivi. Può darsi. Ma anche se li avessimo scritti, chi li avrebbe letti e capiti? Dicono che aderiamo a modelli troppo acclarati, confinandoci automaticamente nell’epigonismo, e mentre ribadivano queste tiritere, intanto, Davide ha rimasticato in lungo e in largo il Testo Sacro e va scrivendo opere pazzesche, che farebbero impallidire Saint-John Perse, Riccardo ha messo in bocca ai poeti del nostro Novecento tutto quello che loro stessi avevano rimosso e ripudiato, Alessandro si è messo a fare poesia su affreschi storici da visionario — per non parlare di Simone, cui spero renderà un po’ di giustizia questo numero. Intanto, però, continuano a propinarci pappine come Il professor Fumagalli e altre figure, come se avessimo stomaci anche noi da ultranovantenni. E pretendono pure l’inchino, l’applauso, la smorfia del volto che dice “però, eh, che bravo. Una vera icona”. «Come no, te la faccio, e ci aggiungo anche una fettina di culo, contento?».
Hai scoperto l’acqua calda, dirai. Sì, è vero, tutto questo era stato predetto. Ma si realizza pienamente soltanto ora, sulla nostra carne, proprio per lo strappo antropologico che si compie nella nostra società senza maestri. Sì, la tradizione si è definitivamente spenta nella palude. Sì, la letteratura è morta, anzi, si è suicidata. Qualcuno potrà mai salvarla? È troppo tardi? Mah, secondo me si salverà da sola, come l’Araba Fenice. Non è il caso di darsi troppa importanza, al suo cospetto. Quando diciamo infatti che la letteratura è morta, dovremmo più precisamente affermare che sono i sacerdoti della letteratura a essere morti, anche se magari continuano ad ammorbare l’aria con le loro elucubrazioni.
Per tali ragioni sento in questo tuo libro una parziale correzione, rispetto al precedente L’eterna notte dei Bosconero, che secondo me cercava un impossibile compromesso letterario con il mercato (scritto proprio dall’autore del folgorante, iperletterario e insieme selvatico Diario di bordo della rosa!). Vorrei dirti: bene, continua nell’inversione di tendenza, completala. Sforziamoci di non credere all’incubo che racconti nelle prime pagine del romanzo. Ah, come mi ci vedo ridotto a quel Pasolini, anzi Pisolini, ancor più banale, in effetti, senza nemmeno la romantica macchia dell’omosessualità… Ma Bertolucci, voglio credere, se avesse ricevuto da uno sconosciuto professore di provincia le sue poesie, sarebbe saltato sulla sedia e avrebbe fatto di tutto per volgere l’attenzione verso di lui. Voglio credere solo a questo tipo di possibilità (anche se leggo, nell’ultimo libro di Viviani, questa poesia: «Alla fine l’unico merito che ho avuto / è quello di avere vissuto / molti anni a Milano»). Se è un’illusione, non scenderò in ogni caso a patti con un mondo diverso, proprio perché «il torto non resta che farlo o subirlo». E vorrei che tu ti rinfrancassi, in questo frangente, circa la mia posizione: non ti farò torto, puoi contare ancora sulla mia sincerità. Ti dirò sempre ciò che non mi convince e farò salti di gioia quando troverò esaltanti le tue pagine. Era questo il mio giuramento, di fronte al patto comune. Purtroppo per te (mentre per me è una fortuna), non sono un Garboli… Che dire? Aveva ancora una volta ragione Simone: hai qualche problema con il potere. Credo di capirti benissimo.
Comunque, anche se la respublica litteratorum in cui abbiamo sperato è una chimera, non ti ho scritto per rimpiangere ciò che non è stato. Non possiamo più tornare indietro. Ce lo vieta Simone stesso: la sua morte sancisce una fine e impone un mandato, che ci riguarda ormai individualmente. Quale mandato? Non lo so, ti scrivo per chiarirmelo. Al momento direi: ci impone la coerenza. La stessa feroce coerenza che lo ha condotto al gesto estremo. Per qualcuno vorrà dire prendere le valigie e fuggire da questo Paese sfasciato, per qualcun altro smettere di scrivere, per altri ancora continuare a farlo, nonostante tutto. Da parte mia, ricambio il silenzio della mia generazione, anch’essa da aggiungere ormai al rosario dei tuoi vaffanculo, e mi inoltro nella mia profezia privata, sotto l’occhio vigile dell’oracolo. Continuo i miei smarcamenti. Ma non infilo la testa sotto terra. Questo no. Voglio anzi allungare lo sguardo ben oltre di me. Ecco, forse sto intuendo adesso il mandato di Simone: dobbiamo farci fuori, lasciar stare la nostra vita. Chiudere gli occhi, capelli al vento, e lasciarci cullare dal rombo del motore. Dobbiamo avere fiducia nel mondo — non quello meschino degli intrallazzi umani: intendo quella luce che ferisce l’orizzonte, quell’aria che ci raschia i polmoni. Sarà rischioso, certo.
Simone, in questo, è stato davvero il più coerente di tutti, il nostro maestro all’avanguardia. Noi, pavidi, ci limitiamo a tentare la capriola sulla pagina. Per questo hai scritto la tua storia, Flavio. Per liberartene. È così anche per me. Perciò, ora che ci siamo detti tutto, ora che abbiamo scritto fino a farci male, mentre scappavamo l’uno dall’altro mandandoci magari anche a quel paese a vicenda, potremo continuare a sperimentare (è vero, non saremo mai un brand, anche se tenteranno di inquadrarci per ciò stesso con il trito postmoderno, o ci intrupperanno in discorsi generazionali che da un punto di vista poetico, ovvero creativo, sono delle pure fesserie critico-sociologiche). E siccome si può scrivere solo per rabbia o per amore, compiuta la svolta del respiro, ora magari scriveremo solo per amore.
Questo è il mio invito finale, Flavio: smettiamola di essere complici dei nostri becchini.
Sperperiamo il nostro talento: saremo degli splendidi guastafeste.
E, forse, ci capiterà di ritrovarci, un giorno.
Una lettera bellissima. La vera tristezza, non so se generazionale, è la mancata risposta.
“Profezia Privata” viene da questa lettera, sembra.