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Fake news sul critico-poeta

Ne circolano tante, di baggianate, intorno alla letteratura. C’è per esempio chi sostiene che di poeti, in un secolo, ne nascano tre o quattro. O che Carducci sia un grande poeta. O che uno scrittore sia un’anima bella e sensibile. O che Omero abbia fatto un giretto nel Baltico, per ispirarsi.

La mia preferita, però, è una certa idea sclerotizzata intorno alla figura del critico-poeta. “Un grande poeta”, si sostiene, “è inevitabilmente anche un grande critico”. 

Vogliamo disfarci di questo luogo comune una volta per tutte? Non esiste, nel Novecento (giacché si parla dello storico depotenziamento in cui ci siamo impantanati, non di perdute scaturigini), la figura di un intellettuale che sia stato insieme critico perfetto e poeta perfetto. Il motivo è, in fondo, semplice: l’attività critica si è incanalata, istituzionalizzata dentro forme tanto specializzate da richiedere un rigore tale che paralizzerebbe le movenze necessarie al poeta per restare in contatto con il proprio pensiero poetante, con la forma specifica del suo pensiero poetante. Sì, sì, è ovvio, anche il poeta possiede i ferri del mestiere, ci mancherebbe! E magari anche il critico è, o più spesso è stato, un poeta. Ma abbiamo figure di poeti eccelsi che siano davvero critici eminenti, o viceversa? No, Contini e Montale restano figure distinte. Il filologo, il critico che si applica e costantemente si aggiorna, e lavora, nel suo ambito, è figura diversa dal poeta che dedica il suo tempo a letture tendenzialmente meno metodiche o comunque meno vincolate.

Questo è precisamente un discorso stupido. So bene che quando i poeti si sono pronunciati criticamente hanno spesso illuminato la scena, ma trovo solo esempi di poeti mediocri che si sono applicati con lo stesso rigore metodologico, con la stessa strenua continuità di un critico.

Sto proprio dicendo che la prosa critica dei poeti tende ad assumere un’altra forma rispetto alla prosa dei critici. C’è un diverso approccio al testo, c’è meno aggressività, c’è più lungimirante capriccio nell’impossessarsi della parola altrui. C’è imperfezione: e qui bisognerebbe scoprire quanta inconsapevolezza e quanta ignoranza servono, in determinate circostanze favorevoli, per alimentare la scintilla di un pensiero davvero nuovo, pulsante, libero di sgattaiolare dai generi.

Non sto, implicitamente, disprezzando la figura del critico, che ho perfino definito un “servitore”, un “martire”. Anzi, il mio intento sarebbe quello di riscattarlo dai suoi vizi (storici, non assoluti) e riattribuirgli la sua piena funzione. Sto, però, calcando indubbiamente su alcuni aspetti deleteri dell’attività critica, per la precisa modalità storica che è andata sempre più assumendo. Il critico ha potere, dicevo, perché è chiamato a giudicare. Ha un suo ruolo sociale, perché deve difendere l’autorevolezza delle sue parole (e lo fa più propriamente nell’ambito di un contesto scientifico, mentre il poeta è avvezzo alla bagarre dei pettegoli e degli invidiosi che vive della soggettività dei giudizi). Nel processo storico di depotenziamento della poesia, ha ormai definitivamente compiuto il sacrilegio: ne ha proclamato la morte, per poter configurare un proprio statuto autonomo, che gli permettesse di stabilire che cosa è e che cosa non è poesia, fino a prendere il largo e abbandonare il testo, verso il più sublime decostruzionismo. Così oggi il critico non ha più bisogno della poesia, o meglio dei poeti (qui ci sarebbe un belll’aggancio, penso, per tanti pronunciamenti della stessa Carla Benedetti, o di un Roberto Galaverni, che sente il suo spazio d’azione determinato da un dopo la poesia che mi pare significativo…).

Persa di vista la poesia, nella proliferazioni dei pretendenti poeti e nell’impossibilità del critico di ripartire daccapo con metodo, senza fare affidamento a criteri-mannaia (cosicché non gli resta che guardare i poeti beccarsi tra loro come galline, dicendo che sarà il tempo a rimettere a posto ogni cosa, secondo naturale e sempiterna giustizia), il lavoro di setaccio e di canonizzazione è stato usurpato dai poeti stessi, che si sono convinti di poter essere anche ottimi critici e che dimostrano sempre più, a ogni occasione, di non avere affatto metodo e cognizione di causa.

Il problema è, per il critico: fino a che punto si può resistere a quello che Carla Benedetti ha definito il «disciplinamento» del suo pensiero? Fino a che punto gioverebbe anche al poeta confrontarsi con una figura non troppo complementare, non troppo diversa, anzi spesso tanto speculare da potersene invaghire?

Io, personalmente, da poeta, sento proprio il bisogno di critici-critici. Certo, anche geniali, anche capaci di uscire dagli schemi e respirare un po’ di ossigeno, in grado di rinnovare la categoria e persino di correggere qualche verso. Ma critici… puri, sì, ripeto la bestemmia. E rincaro: critici di provata autorevolezza (non “autorità”). Direi persino di certa moralità e distacco (trovo immorale che un poeta antologizzi – gli altri e se stesso! – secondo criteri comunque contaminati dall’amicizia e dall’amor proprio). A loro affiderei volentieri i miei testi, sereno di fronte a qualsiasi giudizio. E non parlatemi dell’amicizia fra Eusebio e Trabucco, o dei limiti di Contini nelle sue interpretazioni del Novecento. La perfezione non esiste e ogni posizione presta storicamente il fianco al proprio rovesciamento.

Ma in questo campo, in questo frangente, sono per la separazione delle carriere.

 

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