E oggi un bel tris di poeti (di Davide Brullo)
[…] Dopo l’antipasto e il primo piatto, arriva la carne. E con quale razza di condimento. Andrea Temporelli esordisce con Il cielo di Marte, edito (cosa rarissima che i giganti si occupino di giovincelli dediti al verso) da Einaudi (Torino 2005, pp. 60, € 9,50). Carne da ristorante di lusso la sua. Non fosse che di grasso ce n’è pochino. Assai meno delle due scorpacciate precedenti. Trenta poesie (o poemetti o come diavolo vi pare, l’autore gorgheggia e inventa sterzando soluzioni tecniche diverse tra loro) e accontentatevi. E proprio per questo densissime, piene, quasi impermeabili. Sì perché questo è libro da leggere un bel po’ di volte. La prima si resta sul chi va là, la seconda dirada ma non squarcia, la terza chissà. Non troverete facili risposte, ma difficoltà in aggiunta.
È poeta che mette trappole Temporelli. Che probabilmente non incendia chi crede che la poesia sia melodramma (detto altrimenti, che crede al poetichese di terza lega), ma produce fendenti. C’è un linguaggio (olè!), a volte importante, altre fintamente dimesso, c’è, cosa che ha colpito noi biblici da manicomio, un diffuso andazzo sapienziale. Di una sapienza icastica, corrosiva, da astuto pungiglione. Guai a lei “spiegare”, piuttosto “istigare” («Il male – // trasalì – è di credere irreversibile / la distanza, spostare / il dilemma da qui a qualche altrove / di anime fisse e di forme invisibili»; «Posso solo peccare nel mio nome, / nel nome di mio padre»; «Ciò che importa davvero / è stare eterni e mortali nello sguardo / del bambino che osserva, da un baluardo / di carne e ossa e sangue, / l’infinito indugiare in un sentiero»). Libro alterno e rischioso. Nudo eppure con i parafanghi ben stesi.
Libro di cui già si parla a destra e a manca e male, manco a dirlo, nei crocicchi dove si radunano i poeti dalla facce invisibili, perché si sa che “il mondo dei poeti”, che è una creazione dei non-poeti, è fatto di paparazzi e di beoti e non di pazzi del villaggio come ogni poeta sano di capa è. Comunque, i poeti, che è bene scansare come il peggiore dei mali se vi capitano all’occhio, leggeteli se potete perché tanto la poesia è povera e perciò libera e un poeta mediocre è proprio ottuso forte: non ci guadagna né in dobloni né in fama. Siate savi, questo è già un bel pranzo in tre portate. Abbuffatevi. Al limite soffrirete di stomaco.
(Davide Brullo, E oggi un bel tris di poeti, «il Domenicale», IV, 43, sabato 22 ott. 2005, p. 4)
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