Marco Merlin - Andrea Temporelli: libri

L’iniziazione alla vita (di Giancarlo Pontiggia)

La poesia di Temporelli nasce, mi pare, proprio nel segno di Marte, il dio della guerra inscritto etimologicamente nel nome di battesimo

«Stando alle testimonianze più attendibili, Andrea Temporelli è nato nel ’73 a Borgomanero, anche se non è registrato in nessuna anagrafe. Attualmente vive tra San Maurizio d’Opaglio e Talonno di Invorio. Si occupa della rivista “Atelier”, in particolare la imbusta, vi appiccica le etichette con gli indirizzi, la infila negli scatoloni per la spedizione. È alto 175 cm, ha due figli ma solo una moglie. Ha pubblicato Il cielo di Marte (Einaudi 2005), che non ha vinto nessun premio letterario».

Se così recita, alla lettera, la biografia ufficiale, non me ne vorrà l’autore se mi accingo a svelare ciò che in fondo tutti sanno, e cioè che Andrea Temporelli è il nom de plume di Marco Merlin, nato appunto a Borgomanero nel 1973, con quel che segue (e che coincide in tutto con le note di cui sopra). Nom de plume, assai denso di significati familiari, dal momento che Andrea è il nome del fratellino morto pochi giorni dopo la nascita, e Temporelli il cognome della madre, scomparsa quando Marco aveva undici anni: episodio, fra l’altro, che lo spinge a entrare poco dopo in seminario. Su queste vicende, centro di ispirazione poetica costante nella produzione di Temporelli, andranno lette le tre essenziali paginette che Umberto Fiori ha premesso a La buonastella (Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, Marcos y Marcos 2001).

Merlin, com’è noto, ha fondato nel marzo 1996 – insieme all’amico e «padre» (cfr. Padri e figli) Giuliano Ladolfi – “Atelier”, sicuramente la rivista poetica più vivace dell’ultimo decennio, ormai giunta al numero 51, cui dobbiamo la scoperta e l’esordio di tanti giovani poeti (diversi dei quali presenti in questa stessa antologia). Che Merlin abbia sentito il bisogno di sdoppiarsi in due figure, poetica l’una e saggistica l’altra, testimonia la sua serietà, l’esigenza insomma di separare – per quanto è possibile – il lavoro del lettore (eminentemente oggettivo, almeno nelle ambizioni) da quello del poeta (profondamente calato nella propria esperienza umana e privata). Del percorso critico e saggistico di Merlin, che andrà seguito lungo i numeri di “Atelier” (ma anche su riviste quali “Testo”, “Hebenon”, “La clessidra”, e altre ancora), nonché, in compendio, nei volumi Poeti nel limbo (Interlinea 2006) e Nodi di Hartmann (Edizioni Atelier 2006), non si parlerà qui. Anche se proprio nei Nodi di Hartmann, soprattutto nelle pagine conclusive (Poesia e paternità; Oltre il Novecento), si potranno individuare alcune considerazioni decisive per comprendere la genesi della poesia di Temporelli. Solo apparentemente ingarbugliata la vicenda poetica, che nasce tra il ’97 e il ’99 con due libretti intitolati rispettivamente Suite per l’inverno incipiente e Il cielo di Marte, entrambi per le edizioni Atelier. Seguono nel 2001 la già citata Buonastella; nel 2005, per Einaudi, Il cielo di Marte, che assorbe il titolo ma non le poesie del libretto di “Atelier”, le quali andranno invece a confluire, insieme alle poesie della Buonastella e ad altre cose successive, nel volume, tuttora in preparazione, intitolato Meridiano del nome. Esclusivamente da questa seconda raccolta, stante la facile reperibilità del volume einaudiano, e dall’inedito poemetto Terramadre (di cui si presentano la prima e l’ultima sequenza) sono tratti i testi dell’antologia che segue.

La poesia di Temporelli nasce, mi pare, proprio nel segno di Marte, il dio della guerra inscritto etimologicamente nel nome di battesimo: «Mi sono sentito un marziano che imparava la vita sulla terra. La guerra che poeticamente stavo conducendo, ovvero l’esposizione bruciante e delicata alla mia origine».

Così, appunto, in una pagina dei Nodi. E proprio nella Buonastella si mette già in atto la ricerca delle proprie origini, culminante forse nel finale di Racconto («Si dice che in quel campo / raccolse la rugiada / per battezzarlo un giorno con il nome di Marco, / perché nulla gli fosse dato / senza combattere»). Colpisce, nella poesia di Temporelli, questa tentazione dell’epos eroico, esemplarmente condensato nel nome di Perceval (più volte evocato), ma anche in quello di Enea (cfr. ancora Racconto, dove si allude all’episodio simbolico di Enea che si pone sulla spalle il vecchio padre Anchise), questa sorta insomma di iniziazione alla vita che si fa anche ricerca di un’origine e svelamento di un destino. Ricerca, nondimeno, che andrà tutta a spendersi entro i confini di una quotidianità oscura, priva di eroismi, poeticamente vissuta (come nota Umberto Fiori nella citata premessa, che, fra tante pagine critiche dedicate ai giovani poeti, mi piace citare per il suo esemplare senso della misura) sotto la tutela di un Novecento argenteo, pensoso e severo: «Ma scrivere significa misurarsi con altri padri ancora. Alla tensione tra vita e poesia si aggiunge così quella tra impulso creativo e coscienza critica, tra la propria ricerca e i canoni, i modelli, i santi patroni in vario modo benedicenti e incombenti. Primo fra tutti, mi pare, Vittorio Sereni, di cui ritroviamo echi in certi stilemi, in un certo gusto per il “dialogato”, nel tono sostenuto e dimesso, austero e affabile; soprattutto in un’idea di poesia radicata in un profondo rovello etico. Altre ascendenze si potrebbero rintracciare; ma al di là dei singoli influssi, alle spalle di questa scrittura sembra affacciarsi, benevolo e severo come un buon docente, lo sguardo di un’intera tradizione, diciamo pure della Tradizione con la T maiuscola».

Di questo colloquio-confronto con la tradizione, testimonia il lavoro più recente, Terramadre, un poemetto esplicitamente riconducibile ai Sepolcri foscoliani, nella materia, nell’epigrafe, nell’uso dell’endecasillabo sciolto, nelle numerose citazioni testuali esibite («il cenere muto», «alletta i suoi cantori», «Proteggete i miei padri» ecc.), perfino nella misura (253 versi contro i 295 foscoliani).

Accanto al tema delle origini e della paternità (con tutti i suoi attorti sviluppi familiari, il loro valore simbolico e civile: cfr., per questo, le ultime righe dei Nodi di Hartmann), è proprio il tema stesso della poesia, del suo senso profondo a impegnare molte delle pagine poetiche di Temporelli, a dimostrazione che la separazione tra i due ruoli, quello del critico e del poeta, ha più valore esemplare che reale: Vertigine, sotto questo aspetto, resta il componimento più significativo e risolto, il più felice anche per la capacità di coniugare pensiero e figura (e non a caso andava a concludere la piccola raccolta della Buonastella). Alla tentazione del poeta-eroe della prima strofe («là in alto sembrerà bellissimo, / solo / come un eroe») si oppone, al termine della seconda strofe, il pensiero «dell’eroe / che torna umano» (le sequenze intermedie, sembrano far pensare a certi raccontini kafkiani); ma l’opposizione non contempla il consueto, e ormai stucchevole, tema neocrepuscolare del poeta che si vergogna di sé, e magari si cancella in una moltitudine di pensieri anonimi: come testimonia la terza, e conclusiva, strofe. C’è qualcosa di dimesso, direi di smorzato, insomma, in questi versi, ma che non conduce mai ad esiti minimalistici: e mi pare che proprio questo stato di aerea tensione, di funambolica e sofferta sospensione fra pagina e tradizione, poeta e lettore, terra e cielo, «scienza» e «vertigine» sia – per ora, almeno – il dato più significativo e autentico del lavoro di Andrea Temporelli.

(Giancarlo Pontiggia, Andrea Temporelli, in Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana, a c. di Giancarlo Pontiggia, Novara, Interlinea 2009, pp. 89-91)

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