La calda mano degli altri (sulla poesia di Alberto Toni)
Per varie ragioni, non seguo più con la costanza che avevo qualche anno fa la poesia contemporanea, ma mi piace segnalare l’uscita di un nuovo libro di Alberto Toni, Vivo così. Si tratta di un volume che Pierangela Rossi ha definito «elusivo, come del resto è nelle esplicite intenzioni dell’autore». La poesia deve mantenere pur sempre quell’elemento di segreto, come ricordava Ungaretti, che però non è trucco letterario, posa, ma necessità vitale, postura discreta e responsabile rispetto alla realtà: «Vivo così: d’attesa, / spergiurando su cosa mai può essere: / cuculo, tortora d’attesa. Oscilla il lume, / la calda mano degli altri»
Di questo poeta, però, mi ero occupato a suo tempo, in un saggio incluso nei Poeti del limbo. Mi sembra l’occasione giusta per rileggerlo:
(L’opera scelta come copertina – cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa –
è di Massimo Ezio Domenico Costanzo, info qui, qui e qui)
LA POESIA DI ALBERTO TONI
La pubblicazione pressoché contemporanea di due libri può essere indizio del disporsi su differenti registri della materia poetica. Così in effetti, all’interno del comune accento espressivo dell’autore, si scorge fin dal titolo fra Dogali e Liturgia delle ore il dimidiarsi di due tensioni, sempre idealmente presenti ma incompossibili al culmine della loro fenomenologia. Nel primo libro l’estroversione lirica, alla ricerca di momenti espliciti di contatto con la storia e della massima assertività, pur senza alterare il tono piano e l’atmosfera soffusa, opera in parallelo ma in direzione opposta alla riflessione costante, intima e concentrata, che interroga il passo quotidiano delle cose, il divenire senza clamori dell’esistenza. Zone di interscambio fra i due binari sono evidentemente ravvisabili in vari tratti delle raccolte, ma soffermarsi sulle differenze può forse aiutare, paradossalmente, a intuire l’unità di fondo, suggerendo la circolarità della scrittura che dà forma contemporaneamente a due facce di una stessa medaglia.
La raccolta edita da Empirìa prende il titolo dal testo introduttivo, il quale fa riferimento alla battaglia di Dogali del 26 gennaio 1887, quando il contingente italiano subì una clamorosa sconfitta da parte delle truppe etiopiche. Il micropoemetto (quasi ottanta versi interrotti in alcuni tratti da una riga di puntini che indica soppressioni, passaggi ellittici o pause narrative) si legge con una certa tensione che – anche in virtù di qualche coloritura retorica, di brani di dialogo delle comparse e della suggestione drammatica implicita nell’evento – stringe a sé i passi prosaici o le inflessioni meno originali. Da quella situazione lontana ci si affaccia sulla nostra storia: «Luogo / dei nostri luoghi. Cent’anni così», ma, nello stesso tempo, ci si inoltra nella raccolta, tanto che l’eroica e vana resistenza dei soldati italiani diventa metafora del percorso del libro, leggibile anche come un tentativo di resistenza poetica in territorio straniero, come la disfatta dell’istanza lirica nel suo esporsi alla storia e ai suoi ritmi impoetici. (Il riferimento è al carattere intenzionalmente antiestetico di tanta poesia novecentesca, che parte da canoni dannunziani per riassimilarli o rigettarli del tutto, proprio come Toni che cita in Dogali due versi del vate rovesciandone però il punto di vista). Si prenda a esempio l’istanza formale della seconda sezione, Sonetti del giorno e della notte. Qui la struttura tradizionale risulta un espediente secondario, dal momento che né la concatenazione delle rime né la metrica viene sempre rispettata. La rima lascia spesso il posto a una vaga assonanza, fino a scomparire del tutto; l’endecasillabo invece, che non disprezza affatto l’accento in quinta sede, lascia spazio a un verso con una sillaba eccedente. Ma il fatto interessante è che questa trasgressione si fa sempre più normativa: ecco allora che compaiono anche il verso doppio, per esempio un quinario con l’aggiunta di un endecasillabo («ritorna un tempo che pensavo di avere cancellato»), il novenario o il settenario, attraverso altre graduali infrazioni alla norma. È come se il sonetto tentasse di opporre resistenza a un’inesorabile corrosione interna, che libera infine il dettato nella sezione successiva, Il tempo che viene, la quale si chiude addirittura con un leopardiano Dialogo sulla bellezza, in cui «Il poeta» e «La donna» si alternano, portando avanti la questione con passaggi anche decisamente teatrali, funzionali allo sviluppo strutturale («Ma dimmi se sai cos’è la bellezza»). Con le restanti sezioni, declina pure la coerenza tematica (fino a ora si erano rabonianamente affiancati il tema della guerra e dell’amore). Amati luoghi accosta esplicitamente occasioni e paesaggi diversi, aprendosi a un reale o ideale dialogo con figure poetiche o letterarie. A Elio Fiore è rivolta Recanati («Siamo anche noi in cerca / di memorie storiche»), mentre un’altra poesia è intitolata Fortini («Così Fortini di cui ora leggo “Composita solvantur”») e Blatt è un duplice rimando a Rilke e a Celan. Spesso la riflessione si sposta a un livello metapoetico (Conoscenza) e sempre, in ogni caso, troviamo rimandi a personaggi letterari: Rimbaud («nei suoi versi / abbiamo per una volta ricomposto / la nostra idea della tragedia»), Amleto (La notte di Amleto), Woolf, Dickens, Shelley e Austen (nel Taccuino londinese), e persino Fellini. La poesia è già trasbordata nel referto diaristico, nei temi dell’amicizia e della libertà, nella missiva, fino a negarsi in versi decisamente antilirici. La tendenza a fare della letteratura e della società letteraria un tema inerente alla quotidianità ricorda da vicino proprio i testi di Elio Fiore. Significativo è pure il titolo del primo testo del capitolo seguente: A Dario Bellezza, una lettera in versi. Da qui prende avvio la riflessione intorno alle «sfide del quotidiano», che culminano negli ultimi componimenti della silloge: Guerra e guerre (ritorna il tema di Dogali a costituire un’esatta cornice), che invoca i «cari amici» a condividere il tragico ’96, «tragico nel senso di tragedia / o morti interminabili / di guerra privata», e la programmatica Le poesie: «Le poesie trovano tempo / per le occasioni di sfida – / a un passo dalla morte / con insolito coraggio. / E niente, niente è perso / se le sai ascoltare».
Ben altra compattezza lascia immediatamente supporre Liturgia delle ore. Qui troviamo le poesie riunite agevolmente e in modo indistinto in un unico corpus, Pagine di diario, cui si antepone una poesia con funzione di introito e cui segue il poemetto (o sequenza di brani) che presta il titolo al libro. La sigla Pagine di diario è sufficiente per indicare il procedere lungo la linea d’ombra della memoria che tutto ricopre come nebbia, via via dissolvendo paesaggi, protagonisti, occasioni. Lo «sguardo pittorico e non minimalista» (Mussapi) di Toni pare infatti, nel perenne riverberarsi della luce e dell’ombra con cui si delineano i momenti topici del vivere, sfumare ogni colore fino a ottenere un grigio dominante. Seguendo «la vita / nel profilo dei giorni» si scorge un progressivo appiattimento dell’immaginazione, per la mancanza di accadimenti emblematici e di figure prospicienti. D’altra parte, proprio tale uniformità tonale salvaguarda dall’alternanza di esiti ravvisata in Dogali. Con Liturgia delle ore la semplicità linguistica e stilistica, che devitalizza anche le formule più nette, riassorbe naturalmente le pose scontatamente poetiche che talora riemergono (per esempio nel componimento dedicato A Leopardi ci si rivolge troppo frontalmente, fin dall’incipit, all’interlocutore immaginario: «Poeta, ti lascia dormire / questo nostro vento di città?»; ma è con pari candore che si indugia in sequenze del tipo: «Ho conquistato il cuore della notte / con un grido / tra le foglie del sonno. / Sopra la ruota del cielo / volano gli ultimi uccelli. / Sono lontano i pensieri di libertà», corsivi nostri). Per ricorrere a una citazione dello stesso Toni, in queste pagine «Che fosse giorno o notte, non faceva alcuna differenza» (Thomas Bernhard). Si può immaginare che il rito della scrittura (nella liturgia del titolo) si leghi spontaneamente agli istanti ovattati con cui si chiude la giornata, portando tutto nella luce parificante della memoria: «A sera su fogli appena illuminati / disegno ciò che mi è rimasto. / Scrivo nomi e luoghi, / il mondo nei quattro / angoli bui. Fuori il rumore / di chi ritorna, / la scia leggera del giorno / appena trascorso. A sera / quale immagine splende?». Più straziata pare invece la sequenza finale, intrecciata sulla base di ripetizioni e di riprese, efficaci insistenze che rendono suggestiva l’impressione di un’esperienza culminante, che, si auspica, abbia definitivamente compromesso la monodia del diario.
L’ultima raccolta di Alberto Toni, Teatralità dell’atto, conferma le oscillazioni timbriche e formali, raccogliendo ulteriori suggestioni: il titolo (rovesciamento di “atto teatrale”) rivela una certa propensione all’aforisma, alla dichiarazione sentenziosa, corroborata persino da qualche intonazione luziana, se vogliamo, palese soprattutto nei vocativi o nelle interrogazioni che affiorano di tanto in tanto. Tutto questo è conseguenza di un deciso e risentito irrigidimento delle intenzioni letterarie, apertamente dichiarate nel testo eponimo: «La poesia non deve morire: la faccio come dico io, / come i cantari a mezzo delle piazze nella città / violenta. A costo di perdere il sublime, il vocativo / ormai ebbro. Ma non è un’abiura dal verso, / piuttosto una trafittura ai miei vent’anni perduti». Il coro di figure minori e di amici invocato per portare una testimonianza a favore al personaggio lirico non riesce però a “tenere la scena” al cospetto dei nomi più altisonanti che campeggiano nell’esibita intenzione di dare voce alla storia (Dopo Rabin), alla cronaca (Per Isabelle Autissier e Giovanni Soldini, navigatori), alle visioni epocali (Americana, Clandestini) ancora mosse da increspature retoriche e a rischio costante del pot-pourri di luoghi comuni, al canto della propria esistenza (Ode alla nuova casa). Si confermano, quindi, le incertezze di una poesia che non ha trovato una posa e una intonazione autosufficiente nel gorgo fra Storia umana e storia personale.
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