Poeti contemporanei: Giuliano Donati
La vicenda editoriale di Giuliano Donati si rivela doppiamente paradigmatica nel panorama degli autori nati nei primissimi anni Sessanta. Autore di due libri pubblicati in tempi ravvicinati, ha dovuto attendere poi molti anni prima di dare alla luce il terzo volume, La collinetta. Le difficoltà di emersione di molti autori allora assai promettenti e attivi definisce il contesto che ha dettato non soltanto le occasioni pubbliche del loro lavoro letterario, ma anche il clima in cui si sono formati.
Non solo: un primo, sommario approccio alla raccolta più recente, genera inizialmente il senso di una svolta (peraltro condivisa con altri coetanei coinvolti nell’attività redazionale della rivista «Poesia», si pensi soprattutto a Dal Bianco), che segna il superamento di una prima maniera, più ermetica ed epigrammatica, per dare corpo a una scrittura maggiormente comunicativa, libera anche di adottare il respiro ampio di composizioni distese o quello apparentemente sciolto della prosa. Il punto di svolta va peraltro retrodato rispetto ai tempi editoriali: la maggior parte dei testi della Collinetta sono stati scritti, ci informa l’autore, fra il 1990 e il 1993 (ma anche molte poesie dell’ultimo libro di Dal Bianco dovrebbero collocarsi a ridosso di quelle date). E non basta: come tutte le svolte, andrà annotata la difficoltà di stabilire la linea discriminante fra le diverse maniere: a seconda del punto di vista adottato, si vedranno accavallarsi le due ragioni di scrittura.
Nel caso specifico di Donati, poi, l’alternarsi delle due maniere risulta precoce e l’equilibrio precario della prima raccolta sembra già compromesso in Tolti dalle tende, libro che si sovrappone anzi al nuovo, non soltanto per ragioni di cronologia, ma di materia poetica, come vedremo.
Certamente non insensibile agli esiti memorabili (e così decisivi per molti giovani, in quegli anni) della poesia di De Angelis, per la sua pronuncia adamantina, quasi astratta in virtù di un eccesso di focalizzazione razionale che genera abbaglio, stupore mentale, in una sequenza di versi rapinosi per i passaggi ellittici, che impongono al testo una coesione vertiginosa (Antonio Porta accennava al limite dell’implosione testuale, in merito), molti dei componimenti di Api e cavalieri si stagliano sulla pagina con precisione asettica, lasciando spirare da ogni sequenza un soffio alogico che può incantare, ma che certamente mette a dura prova il lettore. La ricerca di una musica mentale rarefatta e autosufficiente si palesa per esempio nella tendenza ad aprire il componimento con un infinito che proietta l’immagine, ermeticamente, in una dimensione atemporale: «Guidare i tronchi a migliaia…», «Tagliare in Australia in linea retta…», «Passare in macchina e far merenda al sole…», «Lasciare la misura delle braccia …», «Impolverarsi al freddo…», sono giusto gli incipit di sei delle otto poesie che avviano la silloge. Come se non bastasse, il lettore risulta poi subito disorientato per la presenza di suggestioni che fanno riferimento a luoghi quanto mai diversi (si va dal nord Europa all’America all’Australia), per quanto intrecciati nel topos della foresta, che immediatamente attiva le implicazioni fiabesche in qualche modo racchiuse nella dittologia criptica del titolo della silloge. Anche dal punto di vista figurale, il lettore trova molte resistenze nel comporre i tratti simbolici di ogni rappresentazione, per la stessa propensione astrattiva: si pensi all’«orso bianco» che troviamo fin dal primo verso (e che tornerà nelle ultime pagine del libro): ci si trova spiazzati non solo per la scelta ancora bisognosa di giustificazione, ma per le successive indicazioni, piuttosto contrastanti (si parla di «ali bianche», poi di qualcosa che «nuota accanto»).
Questa attrazione per un dettato di chiarezza assoluta, quindi accecante e incomprensibile, si radica in un retroterra culturale che diremo invece lombardo (benché Donati sia triestino di origine), contraddistinto da un pudore espressivo incline all’understatement se non alla reticenza, interessato alla trama narrativa soggiacente ai diversi componimenti, che viene restituita quasi per sottrazione, attraverso la giustapposizione di tessere più o meno liriche, che oggettivano in figure e allegorie le varie maschere del soggetto.
L’ottica strutturale che presiede alle poesie di Api e cavalieri predilige una scansione dei versi libera ma assai ponderata, nell’intento di evitare ogni slancio ritmico e congelare il componimento in una fissità emblematica, pensosa; ma va segnalata anche la ricerca di movenze sintattiche altrettanto calibrate nei giochi di rilancio e trattenuta del senso («Bisogna l’aria estorcere alle dure fiere / e dentro la villa / gli occhi traballare»), che tendono ad aprire analocuti o varie forme di smarrimento grammaticale fra le proposizioni, legate da rapporti ambigui (che implicano anche la progressiva soppressione dei segni di interpunzione): effetti insomma dettati dalla ricerca di quello scarto minimo a fondamento anche delle prime esperienze poetiche di Dal Bianco.
Eppure, questi tratti stilistici, per quanto espliciti e dominanti soprattutto all’inizio del volume, devono ancora convivere con qualche debito di altra natura, magari anche involontario (si pensi all’attacco montaliano di una poesia, quasi ironicamente contrastato immediatamente dal dubbio: «Esterina, forse, o forse no»), oppure con una vena espressionistica e ludica, che compie qualche arabesco intorno ad alcuni nomi maliosi (si veda soprattutto, per questo, la sezione Salamino, da cui ecco l’epigramma che chiude il volume: «Spezzacuori rubacuori detto anche / millevoglie, ho detto anche millefoglie») e di tanto in tanto impone l’ammicco di qualche rima facile o di qualche indugio cromatico, apparentato con il timbro e l’immaginario fiabesco (zanzottiano?) ai quali si è fatto cenno.
Ma, mentre si irrobustisce il contrasto simbolico di fondo dell’intera raccolta fra l’elemento fiabesco, domestico, persino selvatico e il polo contrapposto delle presenze di una civiltà che impone progresso e artificio (contrasto magari sintetizzabile nell’allergia ai metalli contraffatti di cui ci parla Per i gioielli il tuo contatto, testo che si può ancora porre sotto l’influsso montaliano per qualche scelta lessicale, per il tono e per la centralità emblematica degli oggetti), affiora di pari passo anche la spinta, insopprimibile e istintiva, verso una pronuncia meno ardua, a tratti decisamente lirica ed elegiaca (esposta peraltro alle suggestioni non prive di effetto di Rilke, di cui Donati si fa traduttore), legata soprattutto al paesaggio di un hinterland ancora intriso delle memorie di un passato rurale, che lascia affiorare anche i volti di una comunità familiare e, in particolar modo, le occasioni che incidono la memoria di un’età che trascolora sui volti, sugli incontri, sui nomi di cui si era nutrita la favola della giovinezza (legata in modo indissolubile al mondo della scuola, su cui l’autore insiste sempre). E sono, queste, le prime avvisaglie dei tratti peculiari della maniera che si manifesterà compiutamente nella Collinetta.
L’amalgama di differenti maniere, ancora non decantate, giunge con Tolti dalle tende («un libro meno sublimato rispetto ad Api e cavalieri», ci avvisa Buffoni nell’introduzione) a una naturale scissione, apparentemente indolore. La doppia fecondazione stilistica, che qui abbiamo sommariamente indicato come deangelisiana e lombarda – mentre la critica parlava di altre due ascendenze: «un surrealismo oggettuale di marca chiaramente appenninica (Cattafi, De Libero) e una misura etica da scuola lombarda (Erba, particolarmente)», annota sempre Buffoni – subisce l’aggressione vigorosa di uno sguardo che va stringendo l’orizzonte intorno a un paesaggio più concreto e circoscritto, che non può essere ricondotto a una mera eredità letteraria, ma si palesa sempre più come personale opzione espressiva, necessità congenita. Lo ha notato molto bene, ancora una volta, il prefatore: «L’altra ragione per cui farei attenzione a non etichettare Donati è proprio nei richiami espliciti ai toponimi (“Il mio nome di Parabiago”, “Squadra rialzo Milano Centrale”), e persino ai patronimici di Lombardia (“Borsani Vago Carugati”), presenti in questo nuovo libro più che nel primo. Proprio perché presenti, esplicitati, tali ‘nomi’ rendono chiaramente l’originalità del poeta rispetto agli epigoni, per esempio, della “linea lombarda”. Per lui sono frecce, cartelli stradali, indicazioni di fuga. Non contenitori. Geometria per uno spazio che rimane incontenibile, disabitato e ribelle». Anche visivamente la raccolta, dai testi più concisi, calcificati, pressoché privi di punteggiatura, passa al fluido racconto che ripristina la centralità discreta di un io che abita il proprio orto e gioca con il proprio cane. Due esempi anche casuali evidenziano la distillazione stilistica che si compie: ecco il primo: «Non lo volevo capire col caffè e / chiese nelle piante grasse / le acca delle sedie in alto / sul tavolo e mattina / presto a tartarughe nella carta», da contrapporre magari all’inizio del poemetto Il cane e la rana: «Sto rinnovando i chiodi alle assi / del mio orto, raccattate nel tempo, / chiudo il recinto quando fuori / tutto si apre, domanda il mio cane / come verrà la pioggia appoggiata / alla rete mentre raccolgo l’acqua / dal vecchio bagno rotto a cui / è saltato lo smalto» (e sarebbe del tutto insensato avvicinare questi nuovi sbocchi a talune esperienze di area romana, magari l’elegiaco Damiani che finirà per firmare la prefazione a La collinetta?).
È dunque sensato parlare di svolta e individuare in Tolti dalle tende la raccolta che determina il confine di due momenti della ricerca di Donati, nel mentre egli riconosce il passaggio da un’età ancora prossima allo stupore dell’infanzia e la conseguente caduta sull’aspra superficie del mondo indagato con occhi adulti (è questa, mi pare, un’accezione possibile del titolo: «mi hanno lasciato solo / domandandomi di vivere per questo»).
L’ultima raccolta riparte dalle acquisizioni che connotavano lo sbocco del secondo libro. Anzi, non mancano riprese di interi testi poetici. Il caso più significativo è rappresentato dalla Dedica che chiudeva Tolti dalle tende che ora diventa il prologo della nuova silloge, non senza una radicale revisione che asciuga il tono eccessivamente lirico e rimuove la figura dell’interlocutrice, che appare nella nuova versione solo alla fine, lasciando invece prima emergere in tutta la sua autonomia di significato il paesaggio.
Anche il testo più ampio di Tolti dalle tende, Camion sotto la pioggia, viene ripreso, assumendo il titolo di Villoresi: si tratta di un componimento molto lungo, mantenuto con lievi ritocchi (qualche aggiustamento negli a capo troppo bruschi e ormai del tutto gratuiti e l’eliminazione di alcuni versi eccessivamente robusti nelle immagini, comunque indicativi di un’istanza fortemente realistica ora pienamente assunta). Analoga sorte spetta a Marco per te piangerei, che si accorpa con un altro brano a comporre la poesia Marco. Anche qui si aggiustano le inarcature («da queste giornate di / bianca matematica e / pioggia» < «da queste giornate / di bianca matematica / e pioggia»), ma soprattutto si elidono gli ultimi versi, troppo astratti e legati ancora alla prima maniera: «sotto il corpo di niente / saremo i mutilati / al parapetto».
Villoresi era titolo già adoperato in Tolti dalle tende: designava una sezione che poi viene ripresa nella Collinetta (la continuità non è più segnalata dal titolo, mutato in Fuori dal paese, ma dall’epigrafe: «Dove vai per andare a scuola? / Faccio il canale»). L’orizzonte che delimita lo spazio dell’indagine lirica si è allora definitivamente attestato nei dintorni di una realtà di paese, appunto, fatta di colline e di case che l’autore ispeziona come ripiegandosi verso la terra e la propria origine. «Chinato a scavare, le mani nella terra, sono lì che aspetto sulla collinetta», è l’esplicito attacco di Crotto Urago, una prosa che condensa il paesaggio esterno e interiore accolto in qualità di microcosmo capace di raccogliere i segni dello spazio che lo circonda e, forse, lo minaccia. Si tratta di una disposizione a suo modo eroica, di un ritorno dettato anche da un isolamento coatto, che ha fatto seguito agli anni della giovinezza e della formazione poetica. Non c’è nemmeno bisogno di affermarlo per via deduttiva, tramite la lettura del libro: ci si può appellare alla nota di poetica dell’autore (già intitolata Crotto Urago) inclusa nel volume di saggi La parola ritrovata. Qui si esordiva in questi termini: «Partirei da questi anni di sempre più accentuato isolamento e sempre meno probabile comunione di intenti». Un vero e proprio ripiegamento, dunque (tanto che oltre l’hinterland milanese riaffiorano ricordi, paesaggi e suoni del nativo Nord-Est, proteso verso la Dalmazia «presa e conquistata ogni estate»), ma senza idillio: le persone del paese stentano a riconoscere l’uomo che torna sui suoi passi di ragazzo: egli è destinato a un perenne ricadere in se stesso; gli animali che ci rispecchiano sono anche presenze che ci ricordano la nostra estraneità al mondo cieco e primigenio della natura. I poli contrastanti dell’elemento artificioso e dell’elemento creaturale restano quindi contaminati, mischiati nell’orizzonte ideale di una periferia divenuta paesaggio dell’anima.
«È un mondo che è nato da un quartiere disperso e anonimo, e che diventa una patria», quello di cui ci narra adesso Donati, come riconosce Damiani nella prefazione, precisando che «La patria (intesa nel senso classico di luogo piccolo e sacro, chiuso nel giro di uno sguardo, e conservato nella memoria) è il punto, il “buco” (la collinetta è “venuta fuori dai buchi delle case”) da cui il fuoco esce, e vivace frondeggia». Ma si tratta, appunto, di un fuoco docile, domestico, come il dire affabile di un poeta che ci riporta i sapori della terra e, tra immagini di nonni, padri e gatti che compiono il giro della loro vita, ci insegna la disciplina di una gioia dura, che si distende e aderisce ai margini dell’esistenza fragile cui siamo aggrappati, come a un pugno di terra, a un cortile, al confine di una montagna: povertà estrema, che pure ci rappresenta l’universo intero, dal momento che nella memoria possiamo riconoscere ogni presenza che lì si è sedimentata. È il fuoco eroico, insomma, di chi accetta di esaurirsi nella brace, nello scarto minimo di una luce residuale.
(da Poeti nel limbo)
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