La logica dei premi (letterari)
Sono entrato, con Tutte le voci di questo aldilà, tra i finalisti del Premio Letterario Hermann Geiger. La motivazione recita: “per l’affresco originale e parodistico degli intellettuali odierni e dei loro vizi, tratteggiato con una scrittura colta e sapiente”. Per uno come me, molto scettico e tutto sommato indifferente a simili competizioni, la notizia è utile soprattutto per qualche considerazione disincantata, forse addirittura un po’ cinica.
Nei prossimi giorni si verrà a sapere il nome di chi vincerà il primo premio. Non credo che io abbia particolari possibilità di vincere. Affermo ciò senza la minima volontà di polemica preventiva, ma anzi con tutta la soddisfazione che mi è possibile provare in simili circostanze, dal mio punto di vista – soddisfazione che mi riprometto di mostrare sin d’ora nella serata della premiazione, cui ho intenzione di partecipare a prescindere dal risultato. Posto che non conosco nessuno degli altri autori finalisti (del resto, tutti narratori esordienti come me), perché allora “metto le mani avanti”? È la strategia infantile di chi vuole attutire una possibile delusione? No, si tratta di comprendere la logica dei premi letterari.
Tale logica si sviluppa in svariate e complesse visioni del mondo, che non mi interessa qui esporre. Snocciolo in merito appena qualche pensiero, alla buona, così chi legge potrà impastarlo da sé in un discorso più ampio, qualora si trovasse in sintonia, mentre chi non è del tutto d’accordo, o non lo è per nulla, sarà comunque favorito nell’analisi minuziosa di ogni passaggio.
- Il valore di un premio letterario, a qualsiasi aspetto del medesimo si debba (tradizione, qualità della giuria, organizzazione interna, prestigio, montepremi, opinione comune, ecc. ecc.), non garantisce il valore letterario di un’opera premiata.
- Quando una giuria, con in pugno un numero ristretto di candidati (mettiamo i tre/quattro libri considerati migliori) si trova di fronte alla scelta di un vincitore, spesso opta per il titolo pubblicato dall’autore più celebre o, in alternativa (come nel caso di esordienti), dall’editore più prestigioso, per una duplice ragione: a) è ragionevole pensare che un editore importante abbia compiuto scelte ben ponderate e di qualità; b) il premio godrà di prestigio riflesso.
- Nell’ottica di molti giurati (lo so per esperienze personali e dirette), una “segnalazione di merito” non sarebbe una mera “pacca sulla spalla” di consolazione, ma la giusta ricompensa, da accogliere praticamente come una vittoria, per chi si vedesse sopravanzare da altri per le ragioni (mai esplicitate) di cui sopra.
- Qualora una giuria scegliesse, a scapito di un autore o di un editore più celebre, di premiare un nome di minor impatto, dimostrerebbe indubbiamente il proprio coraggio e la propria buona fede, ma non la bontà squisitamente letteraria della propria scelta.
- In qualità di frutto, è più frutto una pera o una mela?
- In certe competizioni, l’unico modo di vincere è non partecipare.
- Non avendo io partecipato di mia iniziativa alla competizione in cui risulto finalista, considererei la vittoria o la segnalazione di merito una (questa volta sì) meritata ricompensa per l’editore, che ha proposto di sua iniziativa il mio romanzo.
- Scrivere in merito ai premi letterari vinti o persi, cui si partecipa o non si partecipa, è sempre un motivo per risultare antipatico. È un gesto poco scaltro che può permettersi solo chi ha la coda di paglia. O chi è completamente sincero, a tal punto da non saper più ragionare intorno alla convenienza di ciò che scrive.
Perfettamente d’accordo. Soprattutto sul punto che inizia con: «Il valore di un premio letterario,» e quello che finisce con: «l’unico modo di vincere è non partecipare». Tuttavia come fa un povero esordiente a farsi conoscere? Forse i premi servo anche a questo. Dico, forse…
Ma sì, Salvatore, tutto ha la sua utilità, tutto fa brodo. Lo dico in senso buono. E ci sono premi con diverse strutture e finalità. Ma l’arte in fondo resta anarchica e poco inquadrabile nelle pratiche sociali.