Poeti contemporanei: Stefano Semeraro
La breve poesia chiamata a fare da antifona alle tre sezioni in cui si congegna il libro unico di Stefano Semeraro, Due inverni, dettando così la Stimmung da intonare per corrispondere all’afflato poetico della raccolta, ci conduce immediatamente a una condizione di scacco, che però non dà il via a una scrittura ripiegata, lamentevole, pronta a compiangersi, ma piuttosto lesta a risollevarsi con piglio etico assai determinato e preciso, come è del resto giusto attendersi da un lavoro calibrato pervicacemente lungo un intero decennio e anche per questo alieno da incantamenti passeggeri: «Neppure cerco più / di comprendere i miei giorni / come non ho saputo / nel tempo che ci era dato / comprendere i tuoi segni. / A dire il vero vera servirebbe / una parola, estate / stretta fra due inverni».
Si direbbe una dimensione di sereniana incompiutezza quella che garantisce qui la verità del gesto poetico, la sua necessità drammatica all’interno del disincanto di chi riconosce la totale supremazia dell’esistente. La dizione poetica si muove dunque da un’indigenza salutare (un ammanco), sebbene il cruccio che segretamente la anima le conferisca, sotto l’apparenza dimissionaria, una più feroce e nervosa energia, che si incarna peraltro esattamente in una versificazione e un dettato davvero memori della lezione lombarda, come dimostrano il registro lessicale medio eppure mai generico, l’attenuazione dello sfolgorìo degli statuti metrici tradizionali all’interno di un tono uniformante e duttile, che rallenta o accelera improvvisamente seguendo gli scatti umorali (basterebbe osservare l’uso occultato e discreto della rima, soprattutto in concomitanza con le clausole, e l’insistito ricorso all’enjambement, che si accoppia alla quasi abolizione della virgola – ripresa solo nell’ultima sezione del libro – che unisce con sottile effetto dislessico sintagmi differenti in un solo verso). L’inverno, così come la distanza, il buio e simili, risultano i correlativi di una cifra esistenziale nient’affatto di quiete, ma di perenne e profonda ebollizione. Scrivere, di questi tempi, è come ostinarsi a rigettare in mare secchi d’acqua quando ormai le falle nel ventre della nave non sono più rimediabili, come un testardo rifare i conti per non arrendersi a un fallimento totale. E infatti sono personaggi anonimi e figure senza privilegi quelli che si muovono sulla scena cittadina scandagliata dal poeta, il cui sguardo e ascolto è un estremo tentativo di riscattarle dal grigiore invernale dell’esistenza per trattenerne, almeno per breve tempo, il respiro, l’impronta personale, la preziosa e irriconosciuta unicità: «La città non gli ha creduto. / Per 40 anni è rimasto sepolto / nell’inverno del suo profilo / ad osservare».
Dal dialogato che compenetra i versi di Semeraro emerge, in modo spesso pudico e velato, ma talvolta con chiara acrimonia (fino a mostrare tratti esplicitamente politici), una morale di resistenza, che riconosce nell’amicizia più che nell’amore il lascito cui attingere quando il presente sordido e conflittuale diventa invivibile: «(E a quell’inverno / poter tornare / a quel gelo far capo / dentro questo gelo / diverso appena scaldato / da questo colloquio / da questa sillaba corta / di fuoco)». In un simile contesto sociale il poeta si muove secondo un vigile equilibrio: «È un gioco di tensioni di anime / a differente densità […] io cammino / al tuo fianco come il ragno / inseguito si fida dell’acqua». Nel moto di avvicinamento alla realtà umana che invece spesso respinge, per il proprio dolore d’essere, ogni mozione di solidarietà, l’autore, pur riconoscendo la dannazione senza tragedia che si cela in seno alla normalità («noi / arbusti, gramigne, erbe da ferrovia / noi che non abbiamo la vocazione / ad essere foreste?»), non si rifugia nemmeno nella memoria, nel canto isolato dei defunti, che pure è invece motivo essenziale in Sereni: «Non ho bisogno di morti / per il mio bilancio / lo faccio qui da solo / a poca voce nel cuore / del viaggio – io solo / presente a me stesso / passeggero e paesaggio». In questa fiera adesione al presente che taglia ogni elegia compromissoria e osserva spietatamente la datità dell’esistente («Sì, dici bene / si riduce tutto ad una folla di neuroni / a filamenti in quantità, inermi»), la voce poetica non si ritaglia alcuno spazio d’ombra all’interno dello scacco orignario, ma abita con pienezza e intensità la dimensione corporea che media i rapporti con ogni alterità. «Tale corporeità, tuttavia», come ricorda Bonito nella nota che accompagna il volumetto, «ha una concretezza metafisica che viene recuperata da John Donne e da Eliot come da Merleau-Ponty, da Montale come da Paul Celan, da Wittgenstein come da Ungaretti, per stare solo ai personaggi più nitidamente ravvisabili in questo libro».
Perfetto alter ego del poeta, di ogni poeta che parla da questo luogo, è esattamente quel Paul Celan ritratto in uno scorcio mentre si avvia verso il confine, dove vita e morte misteriosamente si assomigliano: «Camminava camminava sentiva / il guaìto, Paul, l’abbaiare, lì / vicino al confine – la muta del poeta. / Il fiume urlava. Ora tutto è acceso. / Il dolore è durato quanto le parole. / Dove c’era pensiero le mani ora / toccano per sempre una cosa». È infatti paradossalmente la morte a ricordarci la totale supremazia della vita sulla parola, «estate / stretta fra due inverni».
(da Poeti nel limbo)
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