Narrativa d’oggidì: Marco Candida
Con quale candore Marco Candida confessa che la scrittura è una forma di preghiera, perché l’autore è una spugna di silenzio che s’imbeve del mondo…
Perché scrivi?
Qualche giorno fa sono stato a una seduta di yoga. Era una cosa che volevo fare da parecchio e qui a Grand Forks North Dakota dove attualmente vivo mi si è presentata finalmente l’opportunità. Credo si trattasse di meditazione e non proprio yoga, c’era comunque da sedersi e stare per lo più in silenzio, respirare, ascoltare se stessi, ascoltare il proprio respiro, concentrarsi, quelle cose lì. Ho scoperto di non essere tagliato a farlo. Semplicemente non lo sopportavo. Non ce la facevo. Voglio dire, il silenzio e tutto il resto.
Credo questo rifiuto venga dal fatto che passo già gran parte delle mie giornate nel silenzio di una stanza a pensare e a meditare. Anzi almeno una volta a settimana vado in qualche posto rumoroso – e nessuna delle mie fidanzate (persone inclini al silenzio e alla meditazione) mi ha mai assecondato molto. Io lo faccio perché credo di avere dentro di me un eccesso di silenzio e che bagni di folla e rumori in genere mi aiutino a smaltire questo sovrappiù. Con tutto questo voglio dire che per me dopo tanti anni scrivere è pregare. È un esercizio spirituale, come lo yoga, la respirazione, inginocchiarsi e parlare con una croce, come quelle cose lì. Scrivo ogni giorno qualche pagina e sono a posto con me stesso e col mio dio – forse addirittura con Dio.
Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?
Quello che faccio quando scrivo è cercare di fornire la rappresentazione di un’idea, di un messaggio. Non è nient’altro che questo. È offrire una metafora. A volte la metafora posso individuarla nella realtà. A volte sta invece in una storia con elementi fantastici. Non è importante. Alludo sempre a una condizione concreta, a qualcosa che c’entra con l’uomo, con la sua carne e con le sue ferite. Tutto questo io lo chiamo postmodernità ossia usare qualsiasi forma espressiva o genere letterario con una finalità etica – e possibilmente di un’etica positiva e non distruttiva.
Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani
Io sono di quelli che mette il parmigiano anche nel caffè.
Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati.
Oh no, ti prego, non chiedermi questo… Già una volta mi sono comprato da solo una ventina di copie del mio libro, se adesso mi metto anche ad autocitarmi…
Come si forma un’opera nella tua officina?
C’è un momento in cui passo il tempo a pensare. Non scrivo. Sono sempre in agitazione. Parte di questa agitazione è dovuta al fatto che vorrei scrivere ma qualcosa mi trattiene. Sto pensando a come far sì che una certa cosa che voglio dire possa legarsi a un’idea che la renda piacevole al lettore e che abbia anche una struttura solida che la regga. A volte ho solo delle idee e mi metto lì e scrivo, ma mi accorgo che qualcosa non funziona, come uscire con una bellissima donna muta. Ho bisogno che le mie storie dicano qualcosa e che non siano solo belle, piacevoli – per quel genere di storie uso la rete, il mio blog. Una volta che ho una cosa che voglio dire, un’idea su come dirla e gli strumenti per poterla dire allora scrivo oppure assemblo materiali preesistenti che improvvisamente si presentano alla mia memoria spesso distratta. Secondo me un’opera nella mia officina si forma in modo un po’ selvaggio, ma con del metodo.
Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?
A essere proprio sincero sincero i refusi sono la cosa che mi infastidisce di più.
La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che…
Che nel mio primo romanzo sono contenuti quasi tutti i pensieri e quasi tutti i discorsi circa la letteratura, lo scrivere in bello stile e la scrittura in genere e che sono riuscito a mettere ordine a una materia che sfugge all’ordine per definizione ossia l’ispirazione. Lo ha scritto Giorgio Tesen.
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