Sporcare la letteratura

Narrativa d’oggidì: Angelo Petrella

“Sporcare” la letteratura è la cosa migliore che si possa fare: è il comandamento di Angelo Petrella

Perché scrivi?

Perché è quello che ho sempre voluto fare. Mi rendo conto che non è una risposta, o, al limite, lo è solo per rimandare ad altra e più puntigliosa domanda quale “Cosa è che ti spinge a scrivere?”. Ma come si fa a rispondere a un quesito del genere? È come chiedere a un calciatore perché gioca a calcio, o a un politico perché fa politica: certo, quest’ultimo risponderebbe “Per aiutare il prossimo”, ma la menzogna sarebbe chiara sin dalla prima sillaba. A un personaggio di un racconto di Bukowski pongono la stessa domanda e lui risponde: “E a voi cosa è che vi spinge ad andare al cesso?”.

Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?

Credo di esserci pienamente immerso, nella narrativa odierna. Forse posso dire che l’ultimo mio libro La città perfetta, differisce dai noir, dai thriller o dai gialli italiani contemporanei (che in fondo usano queste etichette per differenziarsi, ma poi sono tutti uguali tra loro e privi d’inventiva), perché “usa” il genere per costruire una narrazione epica e sociale, o meglio, storica. In Italia pochi hanno il coraggio di  usare in maniera estrema i generi letterari e la scrittura, anzi in direzione estrema, noncurante dei giudizi critici. “Sporcare” la letteratura è la cosa migliore che si possa fare.

Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani

Qualcuno che fa qualcosa di penalmente rilevante e poi ci scrive un libro. O magari una solita storia di amore. Ma, soprattutto, una grande costruzione marchettara di marketing virale stile Mondadori.

Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati.

«A Thor Teschio lo ha dovuto sparare perché un giorno quello gli ha quasi sbranato la sorella. Cioè, non è che lo ha sparato per la sorella (ch’era pure una pestona) ma perché il veterinario diceva che ormai il cane era impazzito, forse per la cattiva alimentazione, i pit in genere c’hanno ‘ste tendenze come i dobermann e gli alani. Cazzo erano tutti tristi al fronte pure perché il pit odiava i negri e quando vedeva i barboni del cazzo a piazza del Gesù li mordeva. Io però lo so come sono andate le cose. Il cane era andato fuori ma non per l’alimentazione o stronzate così. Quel coglione di Teschio si faceva di amfetamine e quel giorno stava preparando uno speed quando ‘sto cazzo di cane entra, salta sulla scrivania e gli lecca tutto, cazzo si mangia pure la carta argentata e allora inizia a dare di testa e tipo tenta pure di azzannare Teschio che riesce a chiuderlo in stanza. Però sicuro le amfetamine erano tagliate colla merda. Dopo due giorni che il pit sta chiuso là dentro e quando la mamma di Teschio gli dice cos’è sta puzza lui risponde non so sarà la verdura andata a male, la sorella va a aprire la stanza e si ritrova ‘sto mostro attaccato al collo che l’azzanna sulla schiena. Allora Teschio prova col valium ma niente da fare il cane è strippato e non può mica andare in giro con un cane fattone, che di default sbrana qualunque cosa si muove.»

(da Nazi Paradise)

Come si forma un’opera nella tua officina?

Prima un’idea. Qualcosa che ti ossessiona. Poi leggere tanto attorno a quell’argomento. Quindi molta ricerca storica. E infine, quando stai lavorando al soggetto e alla scalettatura, ti accorgi che già in qualche modo conosci a fondo il carattere e l’animo dei tuoi personaggi.

Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?

Più che cruccio, paura: paura di non aver fatto abbastanza.

La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che…

Quando scrissi il mio primo libro autoprodotto ai tempi dell’università mi dissero che avrei dovuto gettare nel cesso gli intellettualismi, la mia impostazione da studioso, la cultura che avevo ed ascoltare lo stomaco. L’ho fatto. E 8 anni dopo sono diventato uno scrittore.

 

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