Avanguardia e classicismo
La verità è l’orizzonte che ci permette il movimento, la continua approssimazione al Reale.
Si è creduto, e a volte si continua a credere, che il superamento del classicismo, lo sfondamento dei generi, l’infrazione delle consuetudini letterarie sia uno scatenamento di potenzialità conoscitive, uno slancio verso tale orizzonte. Oggi tuttavia si è compreso che si resta sempre e comunque imprigionati nel territorio dell’écriture. C’è sempre una ricaduta nella menzogna del linguaggio, nell’essere scritti/parlati dal linguaggio stesso, dal rigenerarsi continuo della norma – anche nuova, non codificata, peggio se semplicemente inconscia, quindi non gestita criticamente dall’autore. C’è sempre una struttura di mediazione fra noi e il reale, anche quando suoniamo lo strumento in modo alternativo, percuotendone la cassa invece di pizzicarne le corde, per esempio.
Gettato lo sguardo su un nuovo territorio strappato all’orizzonte, nell’atto di fissarlo in immagine, la linea che congiunge terra e cielo si è già spostata più in là. Mentre la penna scorre sul foglio, spinta all’inseguimento della verità, può arrivare a un punto in cui indugia tra una parola apparentemente più convenzionale, magari in armonia con le strutture che si vanno creando, e una più urgente, imprevista: che versante sceglierà? Classicismo o sperimentalismo? Di primo acchito si crede che la seconda sia la scelta più proficua, poi spesso con il tempo ci si accorge che quell’urgenza era illusoria, una passione momentanea.
Il linguaggio non è lo specchio del reale. Quando cattura qualche ombra, la capovolge, la uccide in una fissazione falsificante. Il linguaggio registra sempre un’assenza; ci dà il calco, l’orma di qualcosa che è passato. Possiamo inserire nei versi le parole più realistiche, più impoetiche e legate al presente; possiamo citare nei romanzi fatti storici, riprodurre cronache, inserire marche; ma non saranno mai questi materiali a definire la qualità del nostro gesto. Anzi, talvolta potranno apparire come farciture furbine. Ciò che rende ammirevole un testo è la qualità della sua accoglienza, è lo spazio predisposto a queste eventuali campiture. Conta la forma del vaso e la sua capacità, più che il suo uso contingente.
L’Avanguardia è perciò solo la controfigura dell’Accademia.
L’Avanguardia è innamoramento, il Classicismo è amore.
E come nella vita non si deve scegliere l’amore per rassegnazione, così non è il caso di conformarsi a un animo classico per la comodità di supporre (oggi, di fatto, solo sognare) una società che condivide lo stesso repertorio di metafore-archetipi dalla risonanza universale, di rassicuranti accessori-topoi che ci incantano per la loro ritualità, nella consapevolezza che lo scarto, l’originalità, la conquista conoscitiva consiste nel dettaglio minimo, nel cesello della lingua, nella sfumatura. Come nella vita, l’amore va puntualmente pungolato, rivoltato come brace pronta a nuove vampate, nutrito con le immagini del mondo da bruciare come duri ceppi.
D’altro canto, la certezza che l’orizzonte resterà intangibile, che la mimesi perfetta è un’utopia, non deve spingerci alla compiaciuta solitudine del soggetto insita in ogni visione sperimentale dell’arte.
Oggi dunque la scrittura è viva quando mantiene la tensione fra queste due opzioni. Occorre imprigionare nella scrittura l’indugio. Rendere l’equilibrio precario. Stare sul crinale e offrire squarci dall’una all’altra visione, per esprimere la vertigine di una parola è quella che è, ma poteva essere un’altra – è altra, nella sua scultorea precarietà.
La poesia non è il rispecchiamento di un evento “esterno” – rischierebbe in tal senso di piegarsi a più o meno meritevole pubblicistica. L’evento deve accadere nella scrittura stessa, perché essa sia davvero creazione.
E con ciò siamo di nuovo al dramma novecentesco, al difficile ricongiungimento fra parola e cosa.
Se il linguaggio è menzogna, ogni accadimento sarà un ghirigoro nel nulla.
Se invece il linguaggio è sì una struttura fittizia, ma ancorata al reale e ad esso conforme, ogni atto creativo conterrà il perturbamento della somiglianza.
Non ci sarà mai compimento, ma il discrimine fra rassegnazione e tragedia ha un nome: desiderio.
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