Attraversare Montale
. Potere
simili a questi rami
ieri scarniti e nudi ed oggi pieni
di fremiti e di linfe,
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger folle
di voci verso un esito; e nel sole
che v’investe, riviere,
rifiorire!
Ben oltre ogni possibile disquisizione letteraria, l’attenzione rivolta al centenario della nascita di Eugenio Montale proprio sul finire del Novecento (1996) rappresenta la conferma diretta della sua riconosciuta e tuttora indiscussa centralità nella poesia italiana di questo secolo, tema presente già nella presentazione di Giorgio Zampa all’edizione, dal titolo improprio, di Tutte le poesie dell’autore e ribadito in un articolo di Marco Forti, apparso su “Poesia”.
A ben vedere, anche il fastidio che è andato crescendo, soprattutto fra i poeti, innanzi al “secondo Montale”, culminato poi nei confronti del “Montale postumo” e, solo per decenza, contenutosi in un vago riserbo di fronte alle celebrazioni del centenario, potrebbe essere addotto a prova della veridicità dell’assunto.
Ma non intendo sollevare la questione, per altro non nuova, della straordinaria fortuna del nostro insigne Premio Nobel, che pure potrebbe essere oggetto di indagini affatto oziose. Per esempio, ci si potrebbe chiedere ancora come mai la critica, nelle forme e metodologie più disparate, gli abbia riservato tanta attenzione, oppure analizzare come Montale abbia gestito tale successo, sia rilanciando in proprio osservazioni critiche di proverbiale acutezza (si osservi che è proprio Montale a suggerire, pur riferendosi all’Ottocento, il problema della necessità di un poeta centrale nel secolo) sia operando scelte − editoriali, stilistiche, personali − che continuamente sollecitassero una rilettura della sua opera fino a giungere, magari, a interrogarsi maliziosamente su quanto peso abbiano avuto, nella definizione complessiva della sua figura, le amicizie, l’attività di giornalista, la divulgazione scolastica spesso imprecisa e “datata”… Ma l’esatta misurazione di un’ipotetica sopravvalutazione di Montale richiede, forse, un pizzico di rancorosa gelosia, che non fa al caso nostro.
Restando più castamente negli ambiti della critica, senza ameni sconfinamenti sociologici o aneddotici, ci si potrebbe chiedere se si siano mai fatti veramente i conti con questa sua, discutibile teoricamente forse, di certo storicamente constatabile, centralità. La parabola letteraria montaliana, la sua classicità, va affrontata non solo da chi la riconosce, ma anche e soprattutto da chi la contesta.
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Che cosa rappresenta per i poeti, oggi, quella «figurazione rigorosa, severa, e tuttavia in lineare ascesa del portale gotico» con cui il già citato Forti rende iconicamente la parabola montaliana? «Un portale gotico […] piazzato proprio al centro e all’apice pur sempre drammaticissimo di un secolo più di altri in emergenza per violenze, guerre, scoperte, sviluppo tecnologico e scientifico, voli interplanetari, entro cui la poesia di Montale si è espressa senza sosta, e pur con magistrale rigore, dagli ormai lontani anni Venti fino ai non lontani anni Ottanta della sua morte. Un portale gotico, dunque, che, continuando nella nostra metafora, viene guardato inizialmente e, come è naturale, dalla sinistra; e mostra la linea incisivamente ascendente degli Ossi di seppia e successivamente delle Occasioni, fino all’apice ulteriormente trasfigurato de La bufera e altro, prima di iniziare altrettanto lucidamente la sua parabola discendente, sia temporale sia esistenziale, sull’opposto lato destro del portale, con Satura e i successivi Diari, fino al più recente Diario postumo.»
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Emblema di una stoica coerenza ai propri presupposti, la parabola montaliana giunge a incarnare, per gli estimatori, se non l’estinzione effettiva del canto poetico (giacché egli in persona, seppure con piglio poco convinto e tutt’altro che dirimente, si dichiarava fiducioso sulle sorti della poesia all’atto del conferimento del massimo alloro, il Nobel), almeno della sua strenua resistenza in forme minimali di fronte alla barbarie della storia. «Ed ora che m’importa / se la vena si smorza / insieme a me sta finendo un’era», ci scrive dall’aldilà lo stesso Montale. L’era che finisce è quella del mito di Rimbaud, dell’utopia del Simbolismo. L’epoca contemporanea sancisce il passaggio dal sublime a un’esistenza di triti fatti.
«Forse l’ironia suprema di Montale sta in questo: che egli vuole distruggere l’immagine della propria poesia, mediante la stessa poesia. […] Probabilmente è persuaso che non ci possa essere più posto per una poesia della ragione e per nessun’altra poesia. In sua vece − e già Sereni, per altre strade, arrivava a conclusioni similari anche se meno nevrotiche − c’è il propagarsi polveroso di una metaforicità dove la parola rischia di prendere il posto della realtà − e la sottrae, la elude. Montale è uno dei pochi esempi, nella storia letteraria, di una distruzione di sé per mezzo di sé. Montale ha riconosciuto la relatività dei valori e la precarietà delle cose. Poi va più in là: se si fosse limitato al silenzio (come Rimbaud) avrebbe lasciato una eredità assoluta. Egli l’ha voluta in qualche modo discreditare e banalizzare. In fondo, ha riconosciuto la propria morte» (S. Addamo)
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Sull’altro lato del portale, gli si rimprovera invece un «atteggiamento superficialmente nichilista» (Loi), un pessimismo edulcorato e salottiero. Queste remore, si badi, non sono pregiudizievolmente rivolte alla poesia, di cui si riconosce il modello vincente, ma al rapporto che questa instaura con la realtà, le premesse stesse da cui nasce.
Significativo, a proposito, il ritratto che del poeta ligure ci lascia Luzi: «La poesia di Montale trovò così presto il suo interno equilibrio, determinò subito dentro di lui un ordine così netto, sia pure doloroso, sistemò insomma tanto bene le cose e i suoi rapporti con loro, che da quando gli fui presentato − ed era allora un uomo sulla quarantina − non ebbi mai l’impressione che avesse qualcosa a cui tendere o che dovesse ancora acquistare. L’importanza di ciò che aveva già detto era sensibile anche per lui; per questo nulla tradiva mai nella sua persona o nelle sue parole quella tensione e quel moto in una direzione intellettuale determintata che sono propri di chi non ha nulla alle spalle o, avendo qualcosa, lo dimentica e ripone tutta la posta nell’avvenire. Per quanto il suo itinerario di artista non mancasse, com’è naturale, di incognite, sapeva che ogni nuovo problema l’occasione gli presentasse non avrebbe se non confermato la soluzione già data. Se ne stava dunque al centro della sua tela, intento ma non preoccupato ad arricchirla di nuovi filamenti».
Il passo è fondamentale per ravvisare la differenza di temperamento tra i due poeti. Basti riflettere sulla capacità di rinnovarsi sempre, anche in tarda età, del poeta fiorentino (non sarebbe lecito ipotizzare anche una centralità di Luzi nel Novecento, la cui iconografia potrebbe essere quella di un fiume che si snoda per tutto il secolo e acquista, da ogni territorio attraversato, un diverso carattere, per la sua stessa natura che lo porta a tracimare, a superare i precedenti presupposti?) e confrontarla con il «delirio d’immobilità» o impossibilità di metamorfosi di Montale, il cui cosmo poetico, invece, è in qualche modo già tutto presente nella poesia in limine. Potrà, certo, crescere; l’”orto” giungerà infatti addirittura a introiettare l’aldilà, senza però, questa è l’impressione, valicare mai la muraglia. È come se la poesia di Montale si fondasse tutta su un pregiudizio implicito sulla realtà. Non a caso, a un certo punto egli, con anni di silenzio che Luzi non conosce, non potrà che registrarne la “saturazione” e, scritto il recto del suo unico libro, proporne il verso.
In ogni caso non bisogna cedere all’immagine ultima, sbrigativa e sommaria, di un Montale sornione, “vegliardo” che riconosce la propria distonia con gli eventi della storia: non si renderebbe giustizia al vigore iniziale di un autore che ha trovato presto un’originalità prodigiosa, che formerà, senza rivoluzioni vistose ma in profondità, la lingua e l’immaginario della tradizione novecentesca (e qui neppure Luzi può reggere il confronto).
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Ma qual è, in definitiva, il pregiudizio che sta, o si crede che stia, alla base di tutta la poesia di Montale? La rinuncia a registrare, fuori dei mezzi della ragione, l’esistenza di un orizzonte trascendente, sempre ipotizzato e atteso, ma mai veramente colto. Il varco pazientemente cercato, non poteva, fin dall’inizio, essere rinvenuto e attraversato, semmai solo ipotizzato («Il varco è qui?»); il miracolo non sarebbe mai stato visibile agli occhi di una ragione umana che non vuole trascendersi, una ragione, per questo, ancora di natura fondamentalmente positivista. Proprio in lui, il «poeta centrale, normativo, integralmente novecentesco» (Giorgio Zampa)!
In altre parole, il pregiudizio che gli si rimprovera è esattamente la stoica coerenza che altri apprezzano, la ragione poco ragionevole, irrazionalmente sicura di sé.
E così Montale parrebbe inesorabilmente destinato a restare punto controverso, talmente fedele alla propria «traccia madreperlacea» da rendere assoluta l’ambivalenza della sua poesia. Centrale soprattutto in questo.
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Già. Ma allora come risolvere l’impasse, come «attraversare Montale»? A suggerirlo, credo, non può che essere lo stesso poeta.
L’idea dell’attraversamento poetico, d’altronde, è sua, ed è ripresa da una capitale riflessione che a metà secolo egli faceva su Gozzano. Credo che, senza arrogarsi troppe libertà interpretative, se si rileggessero quelle celeberrime pagine, la tentazione di cercare nell’idea che Montale ci dà di Gozzano un transfert della propria possa avere un fondamento, che pure nulla toglie alla validità oggettiva della stessa riflessione che egli compie su un altro poeta.
Il saggio, pour cause, incomincia chiedendosi il motivo dell’immediata classicità di Gozzano (e finisce ironizzando sul personale disinteresse critico), un po’ come qui, poco sopra, ci si interrogava sul motivo della subitanea maturità, o pieno possesso di sé, della poesia di Montale. (Egli, lo si ricorderà per inciso, con piglio perentorio già nel 1924, in una lettera a Paola Nicoli, scriveva: «È un po’ difficile ch’io riesca a lavorare per ora; il mio genere è tutta un’attesa del miracolo, e di miracoli in questi tempi senza religione se ne vedono pochini. Finito il libro − e finito può quasi dirsi − o sposterò la visuale, mutando genere, o silentium. Non ho nessuna voglia di autovivisezionarmi di più»). In quello scritto, egli afferma che Gozzano fu l’unico poeta del suo tempo che seppe lasciarci, con il suo canzoniere, un compiuto ritratto di sé, ma questo, si badi, perché rimase istintivamente dannunziano: lo scrittore torinese, nel suo attraversamento di d’Annunzio, «ebbe […] la scaltrezza di essere incoerente e si fermò a mezza via», «non si spinse fino ad Alcione, si fermò al Poema paradisiaco». Infatti, «l’ultimo Guido ebbe l’istinto e la fortuna di saper restare quello ch’era: un esteta provinciale, a fondo parnassiano, un giovane piemontese malato, dannunziano, borghese, ma davvero piemontese e davvero borghese anche nel suo mondo». «Dubito che se avesse scoperto nuovi orizzonti egli avrebbe trovato in sé l’istrumento idoneo a tradurli in poesia». Fu questo fermarsi a ciò che confaceva alla propria natura, senza tentare di far nascere l’aquila dal topo, che rappresentò la possibilità, esistenziale prima che stilistica, dello choc fra la materia psicologicamente povera e la compiaciuta esuberanza verbale della poesia gozzaniana, l’attrito linguistico fra aulico e prosastico che in modo così calzante lo squadra da ogni lato.
Forse Montale stava parlando anche di sé, quando affermava che «un Gozzano nuovo non avrebbe potuto uscire che da un totale rinnovamento della sua vita fisica e morale, dopo un’attesa di anni. Un Gozzano, poi, pacificato in Dio (è l’ipotesi, non ingiustificata, del Calcaterra), in quale lingua avrebbe potuto esprimere il suo nuovo sentimento? Non certo in quella dei Colloqui. Ciò spiega, tra parentesi, perché di solito i convertiti scrivano male»? «Non attenderti / gesti di coraggio da un vegliardo. / […] / Il tempo degli eventi / è diverso dal nostro» (Diario Postumo, p. 49). Come avrebbe potuto Montale uscire dall’orto della sua poesia senza un totale rinnovamento della sua vita fisica e morale? L’attesa di anni ci fu, ma la storia non ebbe rivolgimenti o sussulti reali, se non, innanzi al suo sguardo non superficiale, ipocriti ed effimeri rigurgiti: «il tempo si sgrana nella desolata / realtà della vita, che è sempre stata amara» (ivi, p. 38). Così la dicotomia, già tutta gozzaniana, di arte e vita, si fa anche montaliana: «non sapere / se pensare e scrivere e parlare / significhi essere viventi» (p. 81). La vita ripiega in una «solitaria inanità» (p. 39) dove la poesia ritorna a essere rifugio, a tratti persino l’unica e laica religione possibile: «Un giorno / anch’io sarò salvo per chi non mi smemora» (p. 26), recuperando la funzione, certo in ambito meno eroico e più desolatamente umano, già foscoliana: la poesia «altro non è che un pretesto / per sentirsi vivi e meno soli».
Non per nulla, interrogandosi circa le sorti della poesia nel suo discorso per il Nobel − discorso che appare, lo abbiamo già notato, posticcio, privo di mordente, a tratti persino ingenuo (si pensi all’idealistica storia della poesia dalle origini alla presunta morte nella civiltà dei consumi che la riduce a merce), pervaso dalla stanchezza esistenziale che contraddistingue la parabola discendente della sua poesia − lo scrittore risponderà elusivamente che finché «a distanza di secoli una poesia può trovare il suo interprete» (il quale, anzi, ne diviene il vero begetter), come l’Odelette di Joachim Du Bellay trovò nello stesso Montale, essa non potrà morire. E proprio nella luce intima e cosmica del dialogo tutta la sua poesia si inscrive, riducendo sempre di più le distanze con il proprio interlocutore, il quale da lontano, assoluto, salvifico, diviene domestico, semplice, gozzanianamente estraneo alla malattia delle lettere, come se in questo si accettasse la vanità della letteratura, riconoscendo nello spazio effimero del dialogo il suo residuo di autenticità.
«Non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare», ribadisce leopardianamente poco oltre nel discorso per il Nobel.
La poesia, dopo Montale, non è più un assoluto. Non è più lì che si gioca davvero la partita. La vera tentazione, per chi segue la parabola montaliana, scrivendo dopo Montale, non può che essere il silenzio.
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Ma, per tornare alle pagine dedicate a Gozzano, Montale ci suggerisce, in quelle riflessioni, qualcosa di più. Come il poeta torinese ha attraversato d’Annunzio fermandosi a mezza via, così, per attraversare davvero Montale, è necessario non seguirlo nella sua parabola trasversale, che resta fedele al proprio astorico fondamento (poesia come «vizio di natura», indole inesorabilmente prigioniera della ragione che vagheggia, ma non abbraccia il sogno), preclusa alla metamorfosi, ma attraversarlo intersecandolo, ognuno in virtù delle proprie ragioni, sotto l’apice stilistico, in poetica corrispondenza con i risultati più alti.
Ogni altra interpretazione, infatti, non lo attraversa davvero, ma lo fiancheggia. Montale va attraversato poeticamente, può essere risolto solo poeticamente. Chi sente la necessità di andare oltre la crisi, o la via negativa, della conoscenza, che egli rappresenta, e attraversare così il varco che egli ha saputo solo ipotizzare, deve rendergli giustizia (deve giustiziarlo) poeticamente.
Già in Foscolo e in Leopardi la poesia assurge a estremo avamposto nel nulla, ultimo passo totalmente umano (ben oltre la filosofia stessa) dentro il mistero, dopo il quale, forse, vi è solo la fede, che è già atto di trasformazione, passo non più solamente dell’uomo. Il punto di intersezione, lo «sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene» tra il topo e l’aquila.
Spostare, anche di un solo millimetro più in là, questo avamposto, è segnare definitivamente il passaggio oltre «l’orizzonte estremo» (p. 85)
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