Noticine per incantare l’abisso
Pronomi
La terza persona non è un postulato della mente. La lirica si vince dall’interno. Ecco lo straniamento, la migrazione dell’io nel tu (la solitudine di chi parla a sé stesso; vedi il Mestiere di vivere di Pavese), nell’egli (l’oggettivarsi in figura), nel noi (ricerca della complicità e insieme assunzione di responsabilità storica).
C’è il rischio vero di perdersi, non di nascondersi in una poetica di annullamento del soggetto. Mancasse questo rischio, sarebbe tutto finzione sofisticata, non credibile.
Sprezzature 1
Troppa bellezza nuoce. Graffiare il testo, strozzarlo nella giusta misura. Sporcarlo. Prenderne distanza. Perché non sia uno specchio conciliante.
Il dettato e il lessico devono variare, corrompersi: prosastico e aulico, letterario e colloquiale. Anche la sintassi: aprire crepe con parentetiche, complicare, o semplificare brutalmente con la paratassi o una parola dalla congruenza nascosta, incistata nella carne del testo. Fino alla stortura sintattica, all’errore e al suo imbarazzo, che è schiudersi di nuova conoscenza.
Se ci si riconosce completamente nella propria espressione, non c’è arte, non c’è alterità, non c’è la frustrazione che rilancia altrove la parola sempredicente.
Non è solo mia, la mia voce.
Sprezzature 2
Lo stesso valga per la musica. Se dentro l’endecasillabo non risuonano le anomalie del Novecento, se non si attraversa anche la disarmonia, la scrittura è anacronismo furbo e indulgente. Il dissidio pretende il suo intreccio fonico: purché anche in questo non ci sia compiacimento. Senza paura dell’impennata improvvisa di tono: andare sopra le righe, per spaccare, ancora una volta, il testo (il senso giace lungo la linea della profondità, dietro la superficie del significato).
È tutta una questione di misura, di ritmo. L’attrito che fa scoccare la scintilla per innescare la poesia sancisca il connubio di musica e stridore.
Depistaggi
Lo scrittore è ambiguo: ha un volto pubblico e uno segreto.
Perciò ci si affida a scrittori-schermo, a maestri dichiarati, dietro cui celare gli aspetti più segreti e autoctoni: la pigrizia della critica faciliterà l’inoculazione di germi inosservati.
Ubi consistam
Una pagina non statica, capace di rompere la finzione per ricostruire il patto, ma un grado oltre. Una poesia che parla improvvisamente al lettore, che smaschera il poeta, scoperchia la tela metaforica, mostra i fantasmi della creazione, tratteggia il profilo degli interlocutori veri e profondi. Lampeggiamenti, indizi subito cancellati. Si deve intravedere qualcosa, dalla grata delle parole. Perché rivelare è nascondere sotto un velo nuovo, proteggere dicendo.
Pseudonimo
Il nome è ciò che gli altri usano per invitarci ad essere, ad assumere un ruolo.
Stare al mondo con un nome falso è espressione di un disagio: l’atto di mostrarsi nel nome del padre notifica un tale ammanco di giustizia che si reputa meno ingannevole l’adozione di una maschera.
Quale sentimento venga poi ri-velato dietro ad essa non importa, che sia pudore, senso di colpa, umiltà ipocrita incravattata a morte dal narcisismo o quant’altro, si tratterà di grovigli psicologici che non ci riguardano, che non entrano nel commercio mediato da quel nome fittizio, che l’autore si dà per non rispondere.
Avere un nome falso è come non avere nome. Essere anonimi, eppure responsabili e presenti, non nascosti: la scelta di uno pseudonimo non è mai innocente. C’è un sacrificio che si compie, un corpo deposto sull’altare.
Abitare il proprio nome è l’inferno.
Sfregiare il nome
Mi è venuto da pensare a Petrarca, che dissemina il nome di Laura come un feticcio: oggetto di culto e compiacimento. Ho pensato a tutti i luoghi in cui invece io ho sembrato il mio nome, per compiere il rituale opposto: rovinarsi la faccia, bucare, attraversandolo, il narcisismo. E ciò avviene se, davanti al libro, avverti lo spossessamento. Nessuna nota biografica. Il nome è un altro. Chi può dire sia veramente tuo? Chi è testimone di questo legame?
Penso ai fedeli d’Amore, che non lasciano autografi, quasi per siglare il munus dell’ispirazione (che è tale se viene trasmesso alla comunità, se comporta questa responsabilizzazione) con l’improprietà dell’opera.
Altri sfregi
E spesso non si legge, si vede. La pagina elargisce graffi, pullula di occhi indiscreti, punge la retina con i suoi spilli: si fa opaca. Perciò, con discrezione, inserire nomi, come disegnare uccelli sul vetro perché nessun volatile si getti dentro quello che parrebbe uno spazio vuoto. Ogni virgola sia un allarme.
«Finché si pensa in frasi con il punto finale, certe cose non si lasciano dire; l’intero, rispecchiato dalla totalità conclusa del periodo, impedisce che la pluralità del reale emerga nella sua inesauribile frammentarietà. Il linguaggio mette raramente a disposizione i plurali per le sottospecie del sentimento» (Musil).
D’altronde, come essere certi sempre del punto di fuga delle proprie parole? Talvolta spariscono senza segnalare la loro fine, senza dirci addio, lasciandoci impreparati di fronte alla perdita, ancora sospesi in qualche attesa, come potessero riemergere improvvisamente dall’ombra.
Quando è terminata una poesia? E dove? Magari i versi emergono dal silenzio di quindici anni, riprendono bellamente il filo interrotto, sbugiardando il tempo trascorso.
In realtà, la poesia non finisce. Mai, nessuna poesia. Prosegue senza di noi, semmai, il suo perenne avvitamento: corpo non spiegato, uroborico abbraccio di sensi.
Perciò, tenere desto il panico dell’imperfezione (il testo, a un certo punto, abbandonato alla sua esatta inadeguatezza) con la scomparsa improvvisa, quasi impercettibile, del punto
Monito
Stai all’erta. Non prendere confidenza. Tieni memoria della solitudine. La ribalta abbacina. L’ombra custodisce lo sguardo. Il lavorìo del tempo pretende concentrazione, una serenità adamantina.
Non scrivi da mesi: resisti, sei appena all’inizio. Anzi, non c’è alcun principio, sei già dentro, smarrito.
«Il futuro verrà da un lungo dolore e un lungo silenzio. Presuppone uno stato di tale ignoranza e smarrimento che sia umiltà, la scoperta insomma di nuovi valori, un nuovo mondo. L’unico vantaggio che avrò sui miei primi vent’anni sarà la mano fatta, l’inconscio istinto. Lo svantaggio, la messe precedente e l’esaurimento del fondo.
Però – che lo sappia – la nuova opera comincerà soltanto alla fine del dolore. Per ora non posso che almanaccare estetica, il problema dell’unità, e studiare domande per finire il dolore». (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 16 febbraio 1936)
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