Sull’idea dell’Europa interiore (di Massimo Morasso)
Il buon europeo e l’ultimo uomo. Sull’idea dell’Europa interiore
(di Massimo Morasso)
(In copertina, antica carta dell’Europa, spiegata qui)
L’arte come orizzonte comune
L’arte è il vero orizzonte comune europeo. Fra le discipline dell’arte, e in queste, fra i generi poetici, la narrativa è la modalità di restituzione privilegiata del farsi storico di quell’orizzonte. Ciò è comprensibile e, anzi, addirittura evidente nella misura in cui si prenda sul serio la funzione antropologica e civile dell’immaginazione letteraria, senza consegnarla al solo scandaglio della filosofia né, tanto meno, alle categorie dell’estetica e della critica letteraria.
La portata conoscitiva del fatto letterario
Anche in Italia, dov’è più difficile che altrove trovare intellettuali votati a sostenere con un minimo di vocazione teorica la portata conoscitiva del fatto “letterario”, si sta incominciando a ragionare sull’idea di Europa. Negli ultimi anni, una serie di iniziative non estemporanee stanno dando testimonianza di questo indirizzo del pensiero. Tali iniziative appaiono centrate tutte, ciascuna, come ovvio, a un diverso livello di auto-consapevolezza, sull’idea che per superare la crisi epocale profetizzata da Husserl settant’anni fa, oltre all’eroismo della ragione occorre anche l’esercizio di quell’eroismo dell’immaginazione che connota e vivifica tanta parte del patrimonio letterario e artistico europeo.
L’immaginazione letteraria è una componente essenziale della società democratica
Che anche in ambito letterario si stia incominciando a “pensare l’Europa” non è affatto un caso. L’amore per il nostro continente, un amore che ha origini insieme economiche e ideali, è nuovo, ha appena mezzo secolo. Ma questo amore non è (quasi) mai stato un amore letterario. È il frutto, piuttosto, di un patto politico e commerciale. Rischiò di finire intorno alla metà degli Anni Settanta, con l’avvento di quella classe sociale determinata dalla rivoluzione industriale del computer che l’economista Robert Reich ha chiamato, con felice intuizione, «i mercanti di simboli». Con il mercato unico, trent’anni dopo Adenauer, Schuman e De Gasperi, imprenditori, tecnici e finanzieri riuscirono a far prevalere un’idea sistemica, di mutua aggregazione, necessaria per far fronte alla minacciosa concorrenza americana e asiatica. Mai come allora, probabilmente, la letteratura non apparve che come una deriva dei mercati culturali — un paesaggio periferico inscritto in un orizzonte internazionale popolato di miraggi tecnocratici e ambizioni economiche — come se si accingesse a celebrare i suoi magnifici trionfi e progressivi una concezione pseudoscientifica del ragionamento pubblico, per la quale l’immaginazione letteraria non è (non è mai stata) un valore, una componente irrinunciabile della società democratica.
Il destino di una società dipende dalle minoranze creative
A proposito del dibattito politico americano, più di un secolo fa Walt Whitman scrisse che il letterato è un interlocutore assolutamente necessario. Con una posizione intellettuale perfettamente agli antipodi rispetto al cupo, maestoso fatalismo di Oswald Spengler, Arnold Toynbee pensava, com’è noto, che il destino di una società dipende sempre da minoranze creative. Oggi che l’Europa della gestione burocratica e amministrativa è cosa quasi fatta, sembra essere giunto il momento in cui i «creatori di simboli» (per alterare la formula di Reich), i narratori e i poeti, dovrebbero essere capaci di concepirsi come una di queste minoranze creative e, con quel medesimo peso della responsabilità che grava sui cristiani contemporanei secondo Joseph Ratzinger, «contribuire a che l’Europa riacquisti il meglio della sua eredità».
Lo scrittore fabbricato e un progetto condiviso di civiltà
Che la società letterata nel suo insieme sia pronta ad assumersi il ruolo di mediare, nella lingua, un progetto di civiltà tanto ambizioso, è improbabile. Immerso o per meglio dire accerchiato nel maelstrom, nel falso parlare della cultura dell’elzeviro (del quale è l’araldo), lo scrittore-medio, lo scrittore “inventato, fabbricato” evocato mirabilmente dalla Ortese, ha altro cui pensare: a contenuti che simulino un’intesa fra la scrittura e la vita della gente, innanzitutto, e poi, non meno importanti di quelli, a stili vendibili, appetibili al livello della narrativa popolare… La speranza, tuttavia, è che possa collocarsi all’altezza di quel progetto perlomeno nelle sue punte di eccellenza, nei pochi, irriducibili artigiani della parola per i quali la parole, nel senso “antico” di de Saussure, è la langue di una comunità di uomini portata al suo massimo grado di intensità e forza riflessiva.
Il mandato civile dell’uomo che fa letteratura
Se è vero che la parola stilizzata è (anche) o potrebbe essere il frutto dello scavo di un’intelligenza creante intenzionata a trarre alla luce il pensiero che la giustifica, qual è (quale dovrebbe essere), qui, oggi, il compito dello scrittore non ozioso? Esiste un mandato civile dell’uomo che fa letteratura, al di là della sua ardua, doverosa fedeltà al possibile e al verosimile? Nei maestri di protesta e di resistenza ci troviamo già altrove, a ben vedere, in una sfera che sta almeno parzialmente al di fuori del possibile e del verosimile. Su questo punto, per non incorrere in abbagli da ideologi, sminuendo, ancora una volta, le potenzialità di conoscenza implicite nella grande realtà che soltanto i capolavori letterari riescono a offrirci, occorre ricordare una semplice cosa vera: l’arte, infatti, in tutte le discipline e le forme in cui si dà, è sempre, prima di tutto, una percezione di qualità. Un Salamov, un Hašek, un Solzenitsyn, perfino un Brecht sono maestri della parola, non già dei temi che pongono a oggetto, nella parola, della loro attenzione. Levi non è Levi perché ci parla dell’esperienza del lager, ma per come ce ne parla.
La scrittura come spazio di progettazione dell’umano
Gli scrittori non interessino (più) in quanto maestri dell’impegno — e meno che mai dovranno interessare in quanto maestri dell’impegno politico, così pieno dell’arroganza del mondo. La scrittura che porta in sé le stigmate e la forza più che razionale del genio letterario è molto di più che engagement, è uno spazio di progettazione dell’umano la cui logica interna va sempre riferita, radicalmente, alla categoria della “possibilità”.
La lingua è il luogo umanamente deputato al darsi delle cose
Oggi come sempre gli scrittori autentici, questi ottimi antidoti all’istupidimento di massa, non sono che i miglior fabbri della lingua; lingua che a qualsiasi latitudine e in qualsiasi panorama geopolitico, resta il luogo umanamente deputato al darsi delle cose (con buona pace del problema operativamente secondario dell’intraducibilità da lingua a lingua: un “classico” dell’estetismo accademico mascherato da critica pseudo-filosofica). Resta il viatico per antonomasia, dunque, dell’esperienza, e dell’espressione, di un’alleanza enigmaticamente fondativa.
Il pensiero immaginativo è capace di orientare la visione e il destino del mondo
Per sollevarsi dal torpore della mente, non è sempre il caso di addentrarsi in minute scorribande genealogiche. Senza dover parafrasare o, addirittura, storpiare Shelley (e dire, per esempio: «I narratori sono specchi delle gigantesche ombre che l’avvenire getta sul presente…») né scomodare l’estro filologico di Hamann o lo schematismo storico di Vico (per il quale la punta più avanzata dello spirito di un popolo sta nel linguaggio), ragionando sull’identità europea in relazione alle potenzialità conoscitive dello ius proprium letterario, sarà utile, piuttosto, tentare di sollecitare “per tutti e per ciascuno” un movimento sentimentale orgogliosamente, consapevolmente post-novecentesco. Radice possibile di un’intenzione condivisa, la frase «il pensiero immaginativo è capace di orientare la visione e il destino del mondo non meno del pensiero razionale» sembra avere tutte le parole al punto giusto per potersi connotare come un atout concettuale in grado di rispondere bene alla fertile ambivalenza della nostra epoca. Questa frase, in verità, dice molte cose: riassume in un’unica tesi un lungo decorso storico e apre la mente ricettiva all’avvenire di un’illusione sempre più necessaria. Fra le righe, dice anche che inseguire, nel Postmoderno avanzato, le voci tramite le quali traspaiono con feconda verosimiglianza le reti di senso che parlando di noi — parlando, cioè, dell’uomo interiore che ci abita — partecipano intanto alla ricerca dell’idea e delle “identità profonde” dell’Europa significa incontrare una linea di civiltà, di costume di scrittura e di pensiero auto-riflessivo peculiarmente, unicamente europei. E ciò, vale la pena di sottolinearlo, consentirà di muoversi col pensiero lungo una linea che attraversa come una crepa il non-luogo del nichilismo, per preannunciare ed attestare un al di là dell’ormai stucchevole contrapposizione “secca” fra letteratura e filosofia.
Occorre immaginare un diverso principio di intelligibilità del reale
Lasciamo al loro tempo Kant e Montesquieu, e poi Novalis, Cattaneo, Mazzini e Tocqueville. L’avvento dei totalitarismi, l’esperienza traumatica di due guerre mondiali, Auschwitz e la coscienza di altre immedicabili abiezioni perpetrate nel corso di tutto il secolo scorso in Asia, in Africa, in Centro America e nei Balcani ci portano, oggi, nel ventunesimo secolo dell’era cristiana, a immaginare principi di intelligibilità del reale un po’ diversi rispetto a quelli che animavano la loro poderosa ma ormai “vecchia” (pre-globalizzata) scena mentale.
La realtà come orizzonte di domanda
La storia appassionata dell’idea di Europa è transitata dentro e oltre l’orrore del Novecento attraverso la parola plurale di una piccola schiera di scrittori e filosofi le cui pagine più memorabili vivono nella bellezza di un pensiero “prensile”, umanizzante, legato al sensibile e alle ragioni della realtà fenomenica più che alle idee e alle loro pericolose escrescenze fantasmatiche, le visioni del mondo. La questione sembra aver sollevato l’interesse, in particolare, di molti autori attivi in area franco-tedesca. Fra questi, è opportuno ricordare almeno Musil, Sartre, Gide, Goll (in più libri e manifesti), Schickele, Heinrich Mann, Konrad, la Kolb, Saint-John Perse (il quale, diplomatico di professione, svolse anche un suo non trascurabile ruolo nel processo politico di costruzione dell’unità europea), Coudenhove-Kalergi, Barbusse, e poi, più vicini ai nostri giorni, Starobinski, Frisch, Carl Amery, la Sontag, Bichsel, Schneider. Fatte salve le differenze in termini di atteggiamento (oscillante fra politica e impolitica, e all’interno di questa dialettica, fra conservatorismo e utopismo rivoluzionario; fra impeto speculativo e impulso messianico; fra piglio critico-sociologico e afflato ontologico) e di qualità dell’intelligenza, l’atmosfera spirituale che permea i passi e gli snodi più incisivi della Rivoluzione conservatrice europea di Hofmannsthal, L’Europa e l’umanità di Trubeckoj, Al di sopra della mischia di Rolland, Discorso alla nazione europea di Benda, L’idea di Europa di Husserl, La crisi del pensiero e altri saggi quasi politici di Valéry, L’unità della letteratura europea di T. S. Eliot, La patria comune del cuore. Considerazioni di un europeo di Zweig, Sorte dell’Europa di Savinio, Attenzione, Europa! di Thomas Mann, Meditazione sull’Europa di Ortega y Gasset, Il declino dei valori di Broch, Ventotto secoli d’Europa di Denis de Rougemont, Il pensiero meridiano di Camus, Platone e l’Europa di Patocka (libro imperdibile, con quell’idea dell’Europa figlia della cura dell’anima: «Ecco il seme da cui è nata ciò che è stata l’Europa…»), La pace di Jünger, L’agonia dell’Europa di Maria Zambrano, L’eredità dell’Europa di Gadamer, Pensare l’Europa di Morin, Ah, Europa! di Enzensberger, Il tempo dell’Europa di Lourenço, Cose attuali cose eterne. La Russia d’oggi e la cultura europea di Averincev, Oggi l’Europa di Derrida, Speranza per l’Europa di Havel, Il Mediterraneo e l’Europa di Matvejevic e L’Europa è un’avventura di Bauman rinvia a un orizzonte di domanda il cui telos ultimo non è, “filosoficamente” — “metafisicamente” — la mappa della realtà, ma “letterariamente” e, dunque, a suo modo “fenomenologicamente”, la realtà stessa nella sua tremenda, inesauribile, polifonica ricchezza.
L’Europa figlia della cura dell’anima
L’Europa, come ha capito Patocka, è figlia della cura dell’anima. Così come può esistere un amore implicito di Dio, così esiste un sentiero nascosto in superficie in grado di portarci, in interiore homine, alla rivelazione di noi a noi stessi in quanto europei. Sia chiaro, è un sentiero, quello, anzi è un tracciato autoriflessivo, che non può che sfociare in un “non luogo a procedere”, in un’identità negata, poiché noi non siamo né saremo mai in grado di dire in che cosa consiste esattamente il nostro essere europei.
Una comunità di destino e i suoi segni di appartenenza
Proprio nella nostra relativa impossibilità ad autodefinirci possiamo leggere uno dei segni fertili della nostra appartenenza a una medesima, riconoscibile comunità di destino. Il metodo antimetodico tramite il quale ci sarà possibile avvicinarci a quei denominatori comuni che fanno la nostra “europeità” è antico ed è alla portata di (quasi) tutti. Si tratta, infatti, semplicemente di leggere. Si tratta, cioè, di continuare ad accostarsi con umiltà e curiosità alla conoscenza antroposofica riflessa nell’esperienza di significato che innerva le opere del genio letterario europeo: il “nostro” proprio genio creativo oggettivatosi (riplasmatosi) nel linguaggio. ’esperienza della lettura e la formazione dell’uomo morale Niente se non una via negativa, perfettamente razionale per quanto percorsa lungo versanti mentali lontani dall’hybris della ragione calcolante, può avvicinare un soggetto a un oggetto ideale che, nella sua indefinibilità trascendentale, tuttavia lo presuppone e lo comprende. L’uomo europeo in cerca della propria identità essenziale non può che incamminarsi, ogni giorno daccapo, lungo quella non facile via. Certo, si potrebbe obiettare, è sempre impossibile tracciare un confine netto fra l’esperienza della lettura e la formazione dell’uomo morale tout court. Questa impossibilità vale in Europa ai nostri giorni come, oggi quanto ieri, in qualsiasi altra area geografica alfabetizzata del globo terracqueo. Verissimo. Ma è anche vero che le grandi opere poetiche e letterarie nate in area europea sono da oltre venticinque secoli i luoghi — «più vicini al vero della storia» stando ad Aristotele già quasi 400 anni prima di Cristo — di un’inconcludibile discussione (auto)critica: a un tempo spazi deputati al risveglio alla coscienza del pensiero della vita e “campi di battaglia”, nel vivo, polisenso intreccio di etica ed estetica in cui si offrono all’appercezione, all’esercizio del buon giudizio morale.
La radice etica dell’arte della parola
Senza ovviamente appiattire lo specifico letterario sull’etica, appare, ciò nondimeno, lecito — di quella liceità propria a ogni mandato epocale — credere alla radice “etica” di tutta la nostra arte della parola, perlomeno, è ovvio, della parola simbolica in grado di sollevarsi alla contemplazione della realtà, e di descrivere, per così dire, a tutto tondo la compresenza degli opposti che la abita. La tragedia greca, certa poesia di Roma antica, i romanzi di Chrétien de Troyes, la Divina Commedia, Shakespeare e il teatro elisabettiano sono fra gli esempi più alti in questo senso. Nel moderno, i grandi romanzi dell’Ottocento e del Novecento e la parallela, crescente alfabetizzazione di sempre più ampie fasce sociali, insieme alla proliferazione massiccia della critica letteraria, ci hanno dato le antenne necessarie per avvicinarci alla parola (anche) come a uno strumento privilegiato di interpretazione del reale. Dal tempo dell’ascesa della borghesia, non è forse diventata proprio la letteratura (e, fra i generi letterari, in primis il romanzo) l’agorà dov’è sempre di nuovo stato accolto, discusso, custodito e restituito in una forma esemplare alla comunità il principio dialogico che sovrintende — insieme conflittuale e solidale — al pensiero della complessità?
L’immaginazione letteraria non è l’opposto dell’argomentazione razionale
Ci si dimentica troppo spesso che l’immaginazione letteraria non è l’opposto dell’argomentazione razionale. Abbagliati quasi tutti dal quasi-niente concettuale dei “cani neri” imposti al consumo dall’industria culturale, facciamo difficoltà ad accettare l’idea della radice etica della scrittura. La scrittura, dicono in molti, è libera e senza radici. In effetti, ciascuno parla delle cose che conosce, nei modi in cui riesce a dirle, piegandole verso la fantasia del mondo che è in grado di concepire. In un ambiente povero di luce è davvero sempre facile mantenere alto il livello dell’attenzione alle cose?
L’immaginazione letteraria è una componente essenziale dell’argomentazione razionale
L’immaginazione letteraria è una delle componenti essenziali dell’argomentazione razionale in quanto parte, come dice bene Martha Nussbaum, di «una posizione etica che ci chiede di preoccuparci del bene di altre persone le cui vite sono lontane dalla nostra». E lo è, questo, anche quando lambisce o attraversa spazi mentali al confine psicologicamente instabile della de-raison.
L’immaginazione letteraria è un formidabile strumento politico
L’immaginazione letteraria, a braccetto, per così dire, con la domanda di senso e di passione che la percorre, è un formidabile strumento politico utile a (ri)scoprire l’etica della comprensione come motore di quel “nuovo rinascimento” che Edgar Morin non cessa da anni di annunciare.
Trasformare in complessità ciò che non appare che contraddizione
Il cuore della difficoltà di pensare l’Europa — e di immaginare l’aurora del pensiero solare, la civiltà dal duplice volto di cui ha scritto un po’ enfaticamente Camus — non sta nella difficoltà — se non nella franca incapacità — di concepire l’idea di unità nel molteplice, di pensare cioè quell‘unitas multiplex che è scandalo e aporia per il pensiero dirimente? Siamo proprio sicuri che non ci possa essere verità, una complicata, dubitante, paradossale verità, nel conciliare in sé le ricchezze di diverse identità in conflitto, quando si fosse in grado di trasformare in complessità ciò che a prima vista non appare che contraddizione?
L’identità europea è un parassita di fantasmi
Essere europei significa fare i conti con un paesaggio culturale abitato da una lunga schiera di fantasmi. Non esagererebbe chi affermasse che la nostra identità, tanto quella comunitaria quanto quella personale, è il parassita di quei fantasmi.
È bene pensarsi dentro a un’esperienza plurima di identità
Nel mare magnum della recente narrativa europea che conta, la singolarità della voce di ciascun autore è indissociabile dal suo essere-con-in-tante. L’uomo europeo in caccia di se stesso in quanto europeo che vive in un tempo postumo al Novecento (il Novecento è stato un secolo pieno di abomini, ma ha visto svilupparsi e poi concretizzarsi, come una sorta di contravveleno, il sogno, prima di allora addirittura impossibile, dell’Unione), non potrà pensarsi essenzialmente se non dentro a un’esperienza plurima di identità. Nel flusso solo apparentemente centrifugo del suo linguaggio singolare-plurale, il corpus testuale varius, multiplex, multiformis offerto alla meditazione dal grande romanzo del secolo scorso corrisponde all’intima inquietudine di quel pensiero — e rimanda alla responsabilità, una responsabilità che è “di tutti e di ciascuno”, di riconoscerci europei nella misura in cui saremo capaci di aderire alle forme illimitatamente future di un’anima del mondo concepita, per virtù di genio, a sua (a nostra) immagine e somiglianza.
Le radici storiche dell’Europa e il demone dello storicismo
Sterili, di fronte al lavoro di scavo interiore che ci aspetta, sono e saranno le discussioni, così à la page fra i perditempo dell’intellighenzia, sulle radici storiche dell’Europa. Occorre ripeterlo una volta di più? E sia. Grecia, Roma, ebraismo, cristianesimo, illuminismo hanno contribuito tutti, ciascuno a suo modo, all’evoluzione della nostra civiltà. Volessimo sottilizzare, potremmo anche dire che i debiti e gli influssi genetico-culturali vanno al di là delle aree di influenza cui corrispondono quei quattro o cinque immancabili nomi… Ma non è mai bene dar voce al demone dello storicismo.
Il percorso della nostra formazione umana e letteraria
Il percorso, inconcludibile, della nostra formazione umana e letteraria, la storia del nostro progressivo avvicinamento alle fonti poetiche del sapere di noi, del mondo e del suo oltre, racconta meglio di interi corsi di storia europea di che cosa parliamo quando parliamo di Europa.
Una dilagante presbiopia astrattiva
Nonostante il culto della strapaesanità abbia ancora orde di più o meno inconsapevoli cultori, ci sono dei letterati, in Italia, che come me si sono formati soprattutto sulla grande tradizione inglese e tedesca dell’Ottocento. Personalmente, mi ricordo dei libri più o meno blandamente teorici di Lukàcs, di Muir, di Forster divorati con l’ansia del neofita che non vorrebbe porre tempo fra sé e la conoscenza delle strutture profonde e delle tecniche dell’artigianato che fa la loro passione: più delle trame, più delle particolari forme di vita sociale che vi si rappresentano, più della concreta rappresentazione di modi di vita differenti che li anima, nel mio periodo immaturo a interessarmi, nei romanzi, sono stati in primo luogo gli aspetti morfologici, le articolazioni sintattiche, le logiche metaforiche eccetera: in una parola, le leggi sottostanti all’alchimia prosastica del Verbo. Come avrebbero potuto compiacere la mia dilagante presbiopia astrattiva in cerca di archetipi, il destino di un personaggio, per esempio, o il contenuto emozionale di un racconto? Se a ciò si aggiunge che i miei studi di estetica mi avevano portato nel frattempo all’incontro con Walter Benjamin e con altri filosofi delle forme letterarie, è facile capire quale fosse l’angolo visuale dal quale andavo allora osservando l’intera questione del romanzo e non solo: quello di un maldestro fenomenologo che, puntando alla generalizzazione teoretica, sussume quanto più materiale possibile per derivarne un’essenza e assoggettarla al suo sistema mentale.
La Grande Memoria della narrativa del Novecento
Il reservoir che fa la Grande Memoria del patrimonio narrativo novecentesco consta di un paio di centinaia di romanzi (o di racconti, si pensi a quelli, straordinari, perfetti per misura linguistica e forza di stregoneria, di Babel e di Kafka, p. es.) fondamentali a ogni educazione che ambisca a volersi definire europea. Le opere che compongono questo formidabile ensemble d’autore dovrebbero essere letture imprescindibili per chiunque, scopertosi cittadino dell’Unione per decisione governativa, intenda disporre se stesso con qualche cognizione di causa all’interrogazione sulla propria identità comunitaria.
Il verosimile può essere più vero del vero
Spesso, il verosimile è più vero del vero. E il retaggio, in noi, della nostra migliore civiltà, passa per il non-so-che di verità morale in cui ritrova unità, raccolto intorno all’essenza spirituale della lingua, il coro di una vasta, inimitabile polifonia d’autore.
La “condiversità” come qualità costruttivamente dialettica dell’esperienza letteraria
È ben vero, come dovrebbe essere ovvio, che accostarsi all’esperienza letteraria europea dall’alto di una prospettiva etica… non porta da nessuna parte, se non, tautologicamente, alla posizione che assume quella prospettiva, appunto, poiché nell’atto che si vuole partecipe di un progetto di civiltà, non si tratta di sovrapporre una valutazione morale a un giudizio critico. Thomas Mann va di gran lunga più nel profondo dell’umano di Céline, ma ciononostante Céline, beninteso quando è all’apice di se stesso, apre alla consapevolezza di spazi morali “estremi” che senza di lui sarebbero rimasti senza voce, perlomeno nel moderno. Non si ripeterà mai a sufficienza che la narrativa non è etica in principio (cos’è, in fondo, se non un passo falso nell’etica tutta la letteratura da spiaggia?). La narrativa, piuttosto, esprime con misurata puntualità delle posizioni etiche: allena ad aprire la mente alla necessità di un’etica plurale, in grado di concepire e co-generare, per così dire, in itinere un principio radicalmente democratico di “condiversità”.
L’inquietudine e l’esitazione come tratti identitari della coscienza europea
In Europa manca uno scrittore capace di collocare la propria scena mentale davanti a uno sfondo convincentemente profetico e di “scolpire” su quello sfondo un’apologia dell’inquietudine e dell’esitazione. Disvalori, questi, per uno sguardo invariabilmente “positivo” sul reale; valori importanti, per un europeo che desideri dar voce al retaggio di civiltà che lo abita, in grado di riassumere distillando tanta parte della linfa vitale che sostiene quanto è possibile chiamare coscienza europea: parole — inquietudine ed esitazione — nel cui costante contrappunto sembra continui a risuonare anche per noi, qui e ora, l’eco ideale di una società più giusta.
Una situazione di grande squilibrio morale
A fronte o contrappasso della «situazione di grande squilibrio, anche morale» denunciata da Luzi poco prima della sua scomparsa, perfettamente europea — e, per così dire, naturaliter letteraria — è la consapevolezza di un compito di salvaguardia di un sogno fecondo basato su inclusività, diversità, sviluppo durevole, diritti sociali, diritti universali dell’uomo e sulla pace e la cooperazione fra gli uomini.
La cultura è accoglienza, sempre, in radice
La questione europea non pone in gioco soltanto la costruzione di un progetto condiviso di “cultura dell’accoglienza”, ma la coscienza del fatto che la cultura è accoglienza, sempre, in radice: accoglienza dell’altro come parte essenziale di sé. E ciò può essere espresso altrimenti anche con un nome che ha non piccola circolazione nel linguaggio della tradizione occidentale. Questo nome è libertà: accoglienza che ospita originariamente la natura dell’io.
Per un’idea dell’Europa interiore
Il metodo a-sistematico di conoscenza tramite il quale è possibile concepire, oggi, un’idea non estrinseca dell’Europa interiore non ha molto a che fare, in sé, col giudizio estetico sulle opere o la valutazione in chiave di storiografia letteraria di alcuni autori piuttosto che di altri. Ben al di là della buona pratica della comparazione, l’invito alla lettura dei maestri recenti della nostra tradizione ha da essere inteso, piuttosto, come un pungolo a intensificare il nostro singolare, caratteristico talento auto-analitico, un talento assai sviluppato, quasi ingombrante, ma che in un tempo, qual è il nostro, d’insinuante malgusto corre anch’esso un rischio concreto di atrofia. Non è se non nell’esercizio continuo di quel talento, infatti, che potremo finalmente incominciare a (ri)pensarci europei.
Non è vero che le matematiche sono più appassionanti della letteratura
Per un critico come George Steiner, le matematiche oggi sono più appassionanti della letteratura. A confronto con i problemi che sono oggetto di discussione nel dibattito scientifico, anche i romanzi più alti, più raffinati, secondo Steiner, sarebbero preistoria. Affermazioni, quelle di Steiner, che riguardano i gusti e le (se ne deduce) sempre più spente passioni di un uomo che, pure, è stato a suo tempo l’autore di libri importanti come Vere presenze o Linguaggio e silenzio, un uomo che nella sua conferenza The Idea of Europe (del 2004) è stato capace di sciorinare, invece, concetti banali e gigioneschi, imbarazzanti sofismi che non rendono onore né a lui né, tanto meno, alla nostra intelligenza della “cosa in sé” (secondo Steiner, l’Europa sarebbe innanzitutto un vasto caffè letterario di matrice ellenica ed ebraica votato da sempre a un fatalistico cupio dissolvi; sarebbe, ancora, un paesaggio civilizzato percorribile a piedi attraversato da cima a fondo da strade dedicate a grandi statisti, artisti, scienziati e scrittori del passato. Discorso un po’ semplicistico, o un po’ troppo senile, per quanto ambirebbe alla qualifica di arguto, viene da commentare…). Ma preistoria, alle spalle di questo Steiner in saldo di idee, più del romanzo rischia di esserlo l’Europa, se nel suo percorso di (ri)fondazione non saprà farsi carico di un ruolo di resistenza attiva a quel processo che in nome dell’utilitarismo economico sta conducendo a quanto Umberto Galimberti ha definito, con icastica formula multi-uso, come «la sostituibilità dell’etica con la regolazione tecnica dei comportamenti». Tenendo presente, al di là di Galimberti, che resistenza attiva non vuol dire pregiudizio né opposizione frontale, ideologicamente atteggiata, ma sistematica critica razionale in funzione di un ri-orientamento morale in relazione ai fini del fare e, com’è giusto, del non-fare.
Il buon europeo e l’ultimo uomo
In una lettera a Stephan Lackner, settant’anni fa Walter Benjamin ha scritto alcune righe che si potrebbero sottoscrivere qui e ora:
Ci si chiede se la storia non stia per caso forgiando una geniale sintesi tra due concetti nietzschiani, cioè il buon europeo e l’ultimo uomo. Ne potrebbe venir fuori come risultato l’ultimo europeo. Tutti noi lottiamo per non diventare quest’ultimo europeo.
Come ovvio, il succo del discorso di Benjamin non può essere delibato fino in fondo al di fuori del drammatico contesto storico che lo presupponeva. Ciononostante, con profonda intuizione dell’intelligenza profetica dell’ultimo Nietzsche (non si afferma: della qualità veritativa di quell’intelligenza), il filosofo berlinese dice con tre semplici frasi contro quali immagini di noi si debba costruire, oggi, in Europa, un progetto antropologico nuovo, “forgiato” su un’idea dell’uomo alternativa a quella imposta dagli scherani del Male che proprio nel nome dell’Europa — nel nome di quell’anelito di libertà che Benjamin, a livello personale, non volle o non fu in grado di abiurare, fino al martirio — tenga saldi i valori inalienabili della libertà e della responsabilità individuale.
L’Europa dell’Unione fa fatica a riconoscere le sue ragioni ideali
Non serve a niente fare gli euro-catastrofisti o addirittura gli euro-scettici, à la Steiner. Né serve a molto, d’altra parte, essere degli euro-entusiasti… Alla sfida rappresentata dalle domande di senso e di legittimità che incalzano la nuova Europa, è bene rispondere, come sempre, con realismo. E il realismo ci fa dire perlomeno tre cose. Ci fa dire, innanzitutto e in primo luogo, che, stretta fra il problema dell’articolazione normativa delle sue politiche e quello, non meno incalzante, della sua rappresentazione morale e intellettuale, l’Europa dell’Unione fa fatica a riconoscere le ragioni ideali che dovrebbero aiutarla a “compattarsi” e a muoversi e a promuoversi con lungimiranza su uno scenario globale in rapida, convulsa evoluzione. Ci fa dire ancora, quel realismo, che l’Europa, se solo l’osservassimo con gli occhi di un extra-europeo senza ingombro di cultura, ci apparirebbe come un vecchio continente incartapecorito, per molti segni, addirittura, prossimo al crollo. E ci fa dire, infine, che ridotta in pochi decenni da centro propulsivo a periferia di una civiltà che già si annuncia come post-occidentale, l’Europa sopravvive alla propria passata grandezza in un presente continuo di crisi demografica, economica e culturale.
Nessuna illusione sul nostro futuro prossimo?
Al di là dei pungoli inossidabili del principio-speranza che ci abita, non bisogna farsi nessuna illusione sul nostro futuro prossimo? Non è affatto detto, a pensarci fino in fondo. Non bisogna mai esagerare con le illusioni, d’accordo, ma a certe illusioni non è mai umano rinunciare. Ce le offre, altrettanto convincenti convinzioni, un’altra forma di realismo in noi, un realismo intensivo, propositivo. Se un “primo tipo” di realismo ci mostra la pars destruens del discorso, il lato d’ombra della “questione europea” (quello compromesso più da vicino e più direttamente con le logiche di spartizione del potere politico), mettendoci nel mezzo di una verità che ci parla di un continente esangue, senza più molte energie, destinato a essere colonizzato da forze esogene, questa seconda, non meno legittima modalità di lettura ci racconta una storia molto diversa. Ancipite come tutto il reale, anche la questione europea ha un lato in chiaro, infatti, una pars construens rispetto alla quale è e sarà possibile continuare a pensare a una dinamica evolutiva dell’Europa, a un suo futuro ulteriore.
Il destino di una civiltà non lo si incontra quasi mai nelle predizioni del buon senso
Il destino di una civiltà non lo si incontra quasi mai nelle predizioni al ribasso del realismo del buon senso. Il destino di una civiltà lo si incontra più facilmente, a ben vedere, al confine fra lo stato delle cose e il significato che a quelle cose conferiscono una stratificazione di tempi, linguaggi e contenuti spirituali… E in quel luogo disertato d’intelligenza del reale non è detto che l’Europa non abbia da giocarsi ancora tutte le sue chance.
L’eredità di uno spazio morale tramato d’inquietudine
All’incubo di un’Europa americanizzata, arabizzata, e/o “cindizzata”, alla sua implosione, insomma, come entità politica e culturale in quel contesto nuovo che i media ci hanno abituati a definire “globale”, il vecchio continente deve continuare a saper rispondere orientandosi alla luce dello spazio morale tramato d’inquietudine che è la sua eredità più vera.
Non si offusca lo sguardo di chi sa raccogliere la realtà
Non si tratta, per l’Europa che siamo e per quella che verrà, di fantasticare di un Eldorado al di là del proprio (del nostro) tracollo storico. Si tratta di ben altro, di qualcosa di concreto, anzi di concretissimo. Sia detto a chiare lettere: l’immaginazione letteraria, per il modo in cui la possiamo conoscere e praticare, oggi, in Europa, dopo averla coltivata lungo tutti i duemilaottocento anni che fanno la sua e la nostra storia, è un potentissimo strumento di opposizione al pensiero unico. Con tutta probabilità, non esiste al mondo fascinazione più potente della vita sapientemente ri-creata e ri-ordinata nell’arbitrio a suo modo rigoroso della pagina (ben) scritta. Questo lo sanno anche i regimi totalitari, quando eliminando fisicamente o comunque tentando di zittire uno scrittore “scomodo” sperano di poter annullare la testimonianza di verità contenuta nella sua opera. Ma non si offusca lo sguardo di chi sa raccogliere la realtà — l’immensa, indicibilmente complessa realtà del vivo — nello specchio interrogante e inevitabilmente urticante del linguaggio.
Riconoscere il ruolo eversivo di una funzione animica radicalmente auto-riflessiva
Pensare alla sequela storica dei testi e delle opere letterarie da Omero (almeno) ai giorni nostri come a un orizzonte identitario non equivale a “sublimare” la nostra impotenza socio-politica a venire. Non significa, dunque, affrontare l’ineluttabilità di una decadenza con le armi spuntate di uno sterile mentalismo. Significa, al contrario e innanzitutto, riconoscere il ruolo eversivo di una funzione animica radicalmente auto-riflessiva. Qualcuno degno di fiducia fra i nostri padri fondatori non ci ha insegnato forse che la rivoluzione va fatta nel cuore degli uomini, prima e più in profondità che sulla piazza?
La costruzione della casa comune della nuova Europa
Con la costruzione della casa comune della nuova Europa, è giunto il momento di rivendicare alla cultura europea, così duttile e complessa, così singolarmente esperta di ideali e di sopraffazione, il ruolo decisivo di difensore dell’umano nell’uomo.
L’Europa ventura avrà bisogno, per resistere, dell’aiuto dell’immaginazione letteraria
Sola a presidiare l’invisibile “fortezza” stretta d’assedio da chi cospira contro il diritto alla verità, l’Europa ventura avrà bisogno, per resistere, innanzitutto e primariamente dell’aiuto dell’immaginazione letteraria.
Affermare la forza di testimonianza del valore dell’umanità come fine in sé
Fossimo così determinati (e così disciplinati) da introiettare, per lunga fedeltà di lettura, anche solo una buona parte del corpus in cui è racchiuso il genio narrativo europeo del Novecento, saremmo finalmente in grado di accreditare alla letteratura un ruolo cognitivo fondamentale, nell’esercizio del quale l’homo europeus è sempre stato capace, fino a oggi, di affermare la forza di testimonianza del valore dell’umanità come fine in sé.
Dipende da ciascuno di noi difendere il valore dell’umanità come fine in sé
Se quell’uomo, l’io del noi di cui si è parlato, sarà capace anche in futuro di difenderlo, quel valore supremo, dipende soltanto da lui. Cioè a dire, naturalmente, da ciascuno di noi. Ne andrà della sopravvivenza dei valori cui si ispira ogni democrazia che non voglia diventare — forse senza neanche saperlo — una pericolosa macchietta di se stessa.
(da “Atelier” n. 53, marzo 2009)
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