Quando si diventa scrittori?
Quando sei l’unico felice mentre sul diario si segna come verifica un tema. Quando il tuo articolo sul giornalino della scuola viene citato in corridoio. Quando ti sorprendi a rileggere una pagina che hai scritto perché, perdincibacco, a te sembra proprio bella. Quando la ragazza a cui ti sei dichiarato con una poesia ti ha rifiutato, ma al fondo del tuo dolore senti ugualmente una brace di soddisfazione. Quando vinci un concorso, nel tempo in cui ancora puoi credere ai concorsi. Quando un parente o un amico ti chiede di scrivere una pagina per un’occasione particolare, perché solo tu puoi farlo. Quando pubblichi su una rivista nota in ambito letterario. Quando invece di pregare, scrivi. Quando un dolore che sembra sovrastarti riesci infine a imprigionarlo lì, in quel testo, e tu puoi andartene altrove. Quando ti accorgi che la distanza tra ciò che stai facendo tu e il libro sulla bocca di tutti è alla tua portata. Quando ciò che gli editori continuano a rifiutarti a te sembra sempre migliore di molte cose che quegli stessi editori pubblicano. Quando ti accorgi di non essere l’unico a macerarti con lo strano vizio di scrivere. Quando, all’interno della tua generazione, senti di avere una voce. Quando pubblichi il tuo primo libro, non importa se a pagamento. Quando leggi la prima recensione al tuo lavoro. Quando ti inviano dei testi per ricevere un’opinione. Quando firmi il primo contratto e questa volta ti pagano, per pubblicarti un libro. Quando ti invitano a un evento e la tua sedia è accanto a uno scrittore autorevole. Quando senti due che commentano la tua opera e non ti hanno riconosciuto. Quando ti riconoscono per strada anche se non hanno letto niente di te. Quando sbuca, fra i libri di scuola nella cameretta di tuo figlio, una tua plaquette. Quando sei citato in un saggio autorevole o in un’antologia scolastica. Quando nulla di tutto ciò è mai successo, eppure sei ancora lì che scrivi e accumuli progetti, mentre nessuno al mondo conosce il tuo segreto…
Probabilmente non c’è un solo evento che sancisce in modo indelebile il fatto di essere diventato, a un certo punto e per sempre, uno scrittore. Ci sono molte soglie graduali da attraversare, e a ogni nuova stagione i dubbi riaffiorano. Alcune soglie rappresentano delle vere e proprie investiture: sono convinto che uno, a un certo punto, non possa più riconoscersi scrittore da solo. Occorre un’attribuzione di responsabilità, un riconoscimento da parte di altri: magari del tuo autentico, unico lettore, il vero destinatario della tua opera, l’unico volto riconoscibile in mezzo a quella massa indistinta e mostruosa che viene definita “il pubblico”. (Ah, quanto è pericoloso avere un pubblico, prefigurarsi un pubblico: come credere di fissare lo sguardo negli occhi della Gorgone senza restare pietrificati…).
Arriverei però a dire che alcune di queste soglie, a dispetto delle apparenze, sono persino insidiose.
Prendiamo per esempio la retribuzione. Essere pagati per scrivere è più che auspicabile. I meriti e le competenze andrebbero sempre riconosciute, e chi scrive sa quanto tempo e quanta fatica comporti questa attività. Dunque, perché pensare che si debba svolgere gratuitamente? Sarebbe una questione di principio e di rispetto di sé stessi esigere, quindi, un compenso economico. Eppure, lo sappiamo, molti scrittori non si sono trovati in contesti favorevoli e hanno vissuto d’altri lavori, talvolta di espedienti. Inoltre, quelli che veramente vivono grazie ai proventi della loro opera, sono davvero pochi. Pochissimi. I più, semmai, ottengono il corrispettivo per una breve vacanza, un contributo per le spese annesse all’attività di scrittore, una cena offerta agli amici in un buon ristorante. Cose così. Ma, al netto di queste precisazioni, ci si potrebbe chiedere: non è che la retribuzione per la scrittura rischi di diventare (sottilmente, impercettibilmente) una spinta gentile per volgere il proprio impegno più in direzione del mestiere che dell’arte? Sì, lo sappiamo, i condizionamenti sono sempre esistiti, endogeni ed esogeni. Che tu scriva per il principe o con l’ansia della bolletta del gas in arrivo, che tu abbia una scadenza oppure ti basti realizzare per i postumi un’opera immortale da limare fino al resto dei tuoi giorni, è bene sfatare il mito della purezza. Quanti capolavori sono nati per committenza, addirittura per imposizione.
Però il bivio sottile nel nostro discorso si è già imposto. Essere scrittori? In che senso? Una cosa è il mestiere a cui ti puoi applicare, e in tal senso esistono pure delle buone prassi da seguire per sviluppare una carriera; altro paio di maniche invece è scrivere per… come definirlo, il desiderio di lasciare un’opera che duri nel tempo, che entri nel patrimonio comune di una tradizione? Per la gloria? Per un desiderio di immortalità?
Io lo spiegherei così. La vita che ci è stata regalata è un donativo immenso. Non potremo mai, in nessun modo, pareggiare il dono con chi ci ha messo al mondo. E non ci hanno messo al mondo solo i nostri genitori, ma l’intera umanità che ci regala questo presente e questa storia: i nostri avi, le persone a noi ignote che hanno contribuito alla storia del Paese e che ci hanno garantito il privilegio della libertà, e tutti i coloro che hanno nutrito la lingua e la cultura attraverso le quali noi ci costruiamo, come persone. E così via, in una catena infinita. E questo dono, che abbiamo ricevuto gratuitamente, è così immenso da essere misterioso, complesso, a volte perturbante. La vita non è certamente un’offerta innocente, ma una provocazione, una perenne chiamata alla consapevolezza del mistero di cui siamo parte, in quanto esseri umani. Ecco, la scrittura è un modo (non l’unico) con cui a un certo punto qualcuno sente di poter rendere conto del dono della vita, e avverte, poiché impossibilitato a ringraziare, il bisogno di restituire questo bene “in avanti”, di fare la propria parte in questa catena di perenne trasmissione della vita. In questo caso, non ci si sente scrittori, ci si arrischia sulla via per diventare autori. E non c’è parcella che tenga, in questo caso: un autore che offre la sua opera può pretendere un compenso esorbitante come non chiedere nulla.
I termini della domanda iniziale sono a questo punto sostanzialmente mutati. Non: “Quando si diventa scrittori?”, ma: “Quando si diventa autori?“.
Etimologicamente, autore è uno che fa crescere. Autore è colui che riceve consapevolmente il dono della vita e cerca di restituire, rafforzato, questo dono – affinché il mistero sia preservato e nulla vada perduto.
L’autore scrive per beffare la morte, per smentirla, per aggiungere una didascalia ai graffiti rupestri di Lascaux. Si scrive per continuare l’opera comune dell’umanità.
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