Tag Archivio per: POESIA CONTEMPORANEA

Contro le scuole di scrittura creativa

“avrai altre strofe languide dai pusher dello svago”
(Giovanni Succi)

La premessa scontata di qualsiasi corso di scrittura creativa, che non sia una baggianata, una truffa o un esplicito ingranaggio nella filiera della vanity press, è che nessun docente s’illude di infondere il talento. 

Nessuno può intendere e ripetere la scintilla che trasformò un medico, malato e infelice, in Anton Pavlovič Čechov

per dirla con le parole di Giampaolo Rugarli. Continua a leggere

Gian Mario Villalta, fotogafia di Dino Ignani

Gli orizzonti estremi della contemporaneità. Autofiction di Gian Mario Villalta

Negli anni Sessanta capitava che uno studente alla prova di maturità svolgesse un tema su Eugenio Montale, autore già acclamato, ma lontano dal vincere il premio Nobel e neppure ancora nominato senatore. Anzi, persino Satura, il volume che avrebbe avviato la sua seconda stagione letteraria, controversa quanto significativa, non aveva ancora visto la luce. Si trattava insomma di un autore davvero contemporaneo, dalla caratura importante, ma ancora in via di definizione.

Quest’anno, alla maturità, gli alunni si sono cimentati su Verga e Pascoli. Continua a leggere

Omero insegna a cantare a Dante, Shakespeare e Goethe

L’apprendista genio (trailer)

Preoccupazioni per le sorti della cultura e della letteratura in particolare si troverebbero, a cercarle, anche presso la civiltà degli Egizi, ne sono certo. E così, di secolo in secolo, si sono sempre avvicendati i volti cupi dei pessimisti e quelli distesi degli ottimisti, mentre poeti e scrittori

Ma la nostra epoca ha vissuto rivoluzioni tali per cui non è più paragonabile a nessun’altra. Anche le Sei proposte per il prossimo millennio di Italo Calvino, raccolte nelle Lezioni americane, appartengono a un’altra società, a un altro mondo. Continua a leggere

Scherzi della natura

Intorno a due libri di Matteo Marchesini (seconda parte)

I conti con il Novecento

Padri e figli, Relazioni, Età di mezzo, Storiografia, Dal vero (a cui si aggiunge la già citata appendice di Sei traduzioni): alla luce di quanto interpretato finora, le sezioni della raccolta Scherzi della natura organizzano una fenomenologia già riconoscibile. Continua a leggere

Vincono sempre i mediocri? Noterella antipatica e sincera

La mia generazione, e parte di quella successiva, sta arrivando al traguardo. Accumulate pubblicazioni, esperienze, avventure, kermesse, performances ecc., alcuni possono proclamare di avercela fatta. Sono riconosciuti, vincono premi prestigiosi, ricoprono ruoli importanti, hanno voce in capitolo. Sono ormai autori adulti e nei prossimi decenni mireranno a divenire venerati maestri. Continua a leggere

Il libro dei poeti estinti

Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea

Succede che a un certo punto m’imbatto in una copertina e in un titolo: Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea. Una novità fresca fresca.

Succede che ho conosciuto e apprezzato decenni fa Laura Pugno, tanto da volerla a suo tempo nell’Opera comune.

Succede che, di conseguenza, mi viene voglia di ordinare il libro. E tuttavia, nel prendere informazioni, giusto per capire di che si tratta, mi imbatto in questa spiegazione.

Che dire? Mi sembra, semplicemente, l’analisi più cretina che abbia mai letto intorno alla poesia nella mia vita. Continua a leggere

Un tempo nel tempo. Sulla poesia di Marco Munaro

Oggi – ma non solo oggi –
non so che giorno è
È la fine di  …….embre

Da quale tempo parla un poeta? Dal presente, l’unico tempo possibile. Da quel presente che si apre ed espande, che pre-sente il futuro perché ha memoria del passato. Un tempo nel tempo, insomma

Un tempo nel tempo in cui non ero nato
mi ricordo di essere venuto anch’io
lungo lo stradone

giacché la memoria non è affatto memoria individuale, non può esserlo, ma è reminiscenza ancestrale, tradizione (anche acquisita, letteraria), fioritura di luoghi e di cose,

Vieni, scriviamo il tuo nome

nei veloci granai
nei sentieri pensili
nei giardini invasi, scorrenti

e in questa dilatazione di senso (possibile solo dopo un saldo radicamento), c’è spazio per screziature fiabesche, per punture biografiche, per diversioni linguistiche (la prosa, la torsione sperimentale, il dialetto), perché la coerenza è la sedimentazione di fondo della voce, nella molteplicità che si cristallizza in semplicità ricca:

Con questa luce viene la poesia
che ha generato il mondo
e io la scrivo su questa punta macedone
sulla sabbia
La dedico
al giglio delle risorgive
marinaio muto e felice
fiorito a pochi passi dal sale

I versi con cui ripeto queste verità scontate, ma da scontare sempre, da vivificare senza sconti ogni volta, sono tratti dall’antologia di Marco Munaro che ho proposto a Ladolfi editoreUn tempo nel tempo. Poesie (1983-2021).
Marco Munaro è uno dei poeti più significativi del nostro presente. Come si sa, il prestigio editoriale, soprattutto in poesia, è una farsa – al più una felice, occasionale coincidenza, e dispiace dover procedere per ovvietà, ma tant’è. La fragilità della poesia è la sua forza, sussurra nella sua dichiarazione di poetica in chiusura al volume. «Vive per amore di ciò che non è stato ancora amato».
Ecco, non saprei dirlo meglio. La poesia resiste, dimentica di sé stessa, per amore di ciò che brilla sul ciglio dell’oblio. Nulla splende più di ciò che sta per esserci sottratto.

La poesia è servire vincendo.

Sovverte il no e il sì.

Svela il mistero del male e della morte e ne fa un bene.

 

Caravaggio, Narciso

Narciso incompiuto

La strada della carriera letteraria non è il sentiero della ricerca letteraria radicale, profondamente necessitata. La prima è una scelta, la seconda un destino – anche se c’è chi, nei bivi della vita, imbocca il sentiero sbagliato, sviato da qualche equivoco. Continua a leggere

Davide e Golia di Tanzio da Varallo

I Salmi di Davide

L’uscita di una nuova traduzione del libro dei Salmi meriterebbe a priori una lunga riflessione. E se la letteratura italiana esistesse ancora, se una tradizione vivente di scrittori non fosse soltanto un equivoco ectoplasmatico generato dai mass media ma un’entità reale, una comunità ideale o semplicemente, ditelo come vi pare, una serie di individui corresponsabili della loro passione, la pubblicazione di una nuova versione dei Salmi a opera di uno dei poeti più esorbitanti e uno degli intellettuali più liberi e intransigenti scatenerebbe stupore, ammirazione, ira, indignazione, invidia, gioia. E invece siamo qui tra noi, primi uomini fluttuanti oltre la galassia ormai esplosa, a centellinare informazioni lampeggiando nel vuoto siderale qualche barbaglio di luce, per dirci che, attendendo il giorno in cui. E non per noi, ma per l’oggetto magico che rigiriamo tra le mani, primitivi con l’iPhone tra i pollici.

Davide caro, che osi sovrapporre il tuo talento a quello del Davide salmista, mastica per me con sapienza qualche domanda banale. Anzitutto, perché questa fedele frequentazione del Testo Sacro, accanto (o al centro, o in qualche altro snodo strategico, spiegalo tu) alla poesia di tutte le latitudini? Che senso ha oggi questo Grande Codice (rimosso?) dentro la bibbia incodificabile della letteratura mondiale?

La verità, come sempre, non è sacra ma biografica, frugale, futile ai fini di una qualche storia della letteratura. La biblioteca di mio padre rigurgitava libri astrusi, anomali, magnetici, che avrei letto molto più tardi. Mio padre frequentava i Valdesi, all’epoca; era stato in una comunità di Lanza del Vasto, da ragazzo aveva viaggiato fino al Pakistan, alla ricerca dell’oro d’Oriente. Nell’unica lettera che di lui posseggo, indirizzata “A Davide Brullo”, come se il figlio fosse un estraneo – e ne rabbrividisco –, mi scrive, tra l’altro, che i preti “sono molto lontani dalla divinità”. Avevo nove anni. Mi avevano appena battezzato. Mio padre, alla cerimonia, non c’era. A quell’età, semplicemente, mi affascinava la storia del re Davide, il ragazzo che suona la cetra e arma la fionda, che ama in modo dissennato, è un peccatore capitale, tradisce e mozza la testa al gigante. Lo stare tra la norma e l’anormale, tra il divino e l’animalesco di quel ragazzo mi ha sedotto – insomma, la Bibbia è stata un’avventura.

Non si traduce la Bibbia per trovare Dio o per deforestare il vero: nel mio caso, mi accanisco lì per edificare una genealogia, costruire generazioni inedite e inaudite, per poi sbriciolarle, vedere un padre che ti costruisce la casa sull’albero, e abitare lì, soggiogati al decalogo delle piogge.

Di quale pantera hai seguito le tracce, che lingue hai braccato per questa tua versione? Gli Scanni, primo specimen di questa materia, mordeva l’osso del testo masoretico con furia giocosa, sperimentale, non disdegnando il pastiche linguistico (con inserimenti in particolare dal latino della vulgata, ma screziature derivate anche dalla lingua del Belli, di Albino Pierro, di San Giovanni della Croce), mentre ora qui offri un testo anche visivamente più composto, sebbene sempre ripido e ricco di trappole e scoscendimenti.

La lingua è una forma di difesa – o un assalto. Se fossi puro, se sapessi veramente chi sono, i Salmi sarebbero un canto, un suono, esatta sconfitta del respiro. Ne sarei soffocato – e dovrei correre a quattro zampe nei boschi, deviando dall’astrolabio della preghiera e del monastero. Occorrerebbe lallare, balbettare, sbandare di labbra, conoscere la lingua dei ragni e dei rospi, incastonare Eden in Babele… invece, sono ancora a fare le capriole verbali, perché qualcuno riconosca questo basso talento, una svendita dell’infanzia. D’altronde, il bello è che i Salmi – al di là del verbo e del regno grammaticale – esistono se qualcuno li intona, li smuove in inno: a quel punto, il legame è dato, cartilagine d’angelo; il punto, semmai, è l’evasione dal letterario. No, la Bibbia non è un libro come un altro – nessun grande libro è come un altro –: getta foreste dentro la finestra della cucina, spalanca l’Oreb sul comodino.

Questa prova può essere un’occasione per ricordare il tuo viaggio intellettuale. Che cosa ha studiato l’attuale interprete delle preghiere di Davide, quali traiettorie letterarie ha seguito, in particolare?

 L’unico insegnamento è cercare di distruggersi. Sono un autentico ignorante, un avvoltoio che si pensa falco, e si nutre di verbi morti, di libri moribondi. Come chi cava gli occhi ai cadaveri, perché non trovino rinascita in questo mondo, in questo tempo. Divoro le vite degli altri, come un vampiro. In modo disordinato, per una forma di azzurra consolazione, torno a Saint-John Perse e a René Char, leggo Eschilo e Lev Šestov, Pascal e Pasternak, Cormac McCarthy e Saigyo; ma è tutto come lasciare la propria impronta digitale su una pozzanghera. Da ragazzo, un maestro, Remo Cacitti – che, ho scoperto molto più tardi, insegnava a San Vittore e fu amico di Enzo Fontana, scrittore di talento incappato, neanche maggiorenne, nei Gruppi d’Azione Partigiana guidati da Giangiacomo Feltrinelli, quindi in carcere, in seguito all’esito tragico di un conflitto armato – mi inoltrò nei misteri della glossolalia. A proposito, è importante ricordare che San Paolo, nella Prima lettera ai Corinti, cita la “traduzione delle lingue” tra i carismi. Tradurre, ecco, è un dono, fatto improprio, di Dio. Divergere dal verbo, quindi, un compito.

In quanto scrittore che si cimenta nell’interpretazione dei Salmi e non solo, ma in lungo e in largo dell’Antico Testamento, vengono in mente (solenne ovvietà) i nomi di Ceronetti e di De Luca, fra gli altri. Cogli analogie o differenze significative, oltre al mero dato oggettivo, rispetto alla ricerca di questi autori? Non ti chiedo ovviamente il posizionamento letterario, la gestione della fama. Ti chiedo se hai sentore della fame altrui, per meglio cogliere la tua.

Di tutti, in questa transumanza di tradimenti sono l’ultimo – mi stupisce che non sia nata, piuttosto, una tradizione della traduzione biblica, instupidita e folle: come fai a capire che lingua hai se non ti inerpichi sul Golgota della Bibbia?, vicende di attesa, di atletismo, attuare l’ascesa, cioè il crollo di sé… ah, tradurre fino a notte, con l’erba in bocca, mentre le falene ti scaraventano nel regno effimero, torturati da una lampada che ha il volto di Elia… Ovviamente, ho amato molto le traduzioni di Ceronetti, ho letto quelle di Emilio Villa e di Bontempelli, mi è parso che il passo preso da De Luca quasi subito si sia mutato in posa, in tono grigio, muratura poco celeste, mediocre, sinagoga dell’ovvio. Ho studiato la tua traduzione del Cantico, la Genesi e l’Esodo nella versione di Gian Ruggero Manzoni; un amico, Leonardo Bonetti, ha tradotto in musica il libro di Daniele. Più di una volta ho progettato la traduzione della Bibbia, libro per libro, compiuta da poeti, scrittori, botanici, passanti, montanari, alieni a ogni lingua e a ogni trigonometria della traduzione… Forse la pratica è amare il destino anonimo.

Sarebbe il caso, ora, di girare meno intorno al problema – il testo. Ma non è ovviamente possibile chiederti ragione di ogni scelta e apporre una nostra Selah per aprire un varco nel segreto sorgivo del canto. Ti chiedo però ragione della tua lingua più sintetica, refrattaria e porosa, che riduce all’osso le parole, le rende meno accessibili sull’onda di una melodia se non rigettata del tutto, almeno franta, intonata più sull’ululato che sulla preghiera, come tu stesso annunci.

Bisognerebbe saper arare, cioè spaccare il vocabolario a metà perché nasca la parola nuova, e capire quale costituzione impongono le stelle. Aprire la parola della terra come si separarono i mari alla voce del balbuziente; le lingue si separarono costruendo una torre – Babele è specchio contrario del Labirinto, entrambi luoghi dove ci si perde: nel mito cretese, però, il logos si contraddice in grugnito, il dio in bestia carnivora, mostro rifiutato, cornuto arcano – e si coagulano nell’innenì nuziale di Abramo, l’eccomi che sutura la Storia al torso di Dio, ammissione che sa di assassinio, obbedienza al sangue. D’altronde, ogni lingua è fraintesa in testo sacro – o piagata dagli indicibili –: Gesù è irriconosciuto, e quando lo fanno irriconoscibile, che penzola dalla Croce, c’è chi lo prende per Elia, per un profeta, per un mestatore di anime, comunque per un altro. Dunque, il mio spigare verbi è del tutto irragionevole, pura pratica di chi lancia le pietre e trae un destino, crede che il giorno sia un osso frontale, scopre la filologia delle nuvole, nuota muto. Non pregherei mai con queste mie parole, che abominio; bisognerebbe usare le parole una volta sola, e mai più, sempre vergini, magiche. Poi tagliarsi la lingua e lasciarla sul lenzuolo, come un granchio.

Delle raffigurazioni di Davide la più audace è quella di Tanzio da Varallo. Davide ha la faccia da bambino, i capelli, biondi e ricci, s’irradiano. Rispetto a quel volto tutto è eccessivo, impossibile: il braccio del bambino, enorme, la spada, gigantesca, la testa di Golia, nel pugno sinistro, con il buco in fronte, grande quanto un corpo. La faccia di Davide ha l’innocenza spietata di una bestia, la stessa cauta eleganza di un giaguaro. In effetti, i Salmi non vanno letti come una raccolta di poesie – ma ripetuti, ripassati a memoria, leccando ogni verso fino a smarrire le coordinate della comprensione. I Salmi non si meditano, si colgono incessantemente, finché non diventano fischio e noi ci tramutiamo in fiera, in preda (Davide Brullo)

 

Lorenzo

Quale pubblico? Si scrive per i figli

Non si può scrivere per nessuno, anche se nessuno ascolta. E nel rovello di un’opera che si compie nel totale abbandono, c’è la serenità che viene da alcuni occhi che rendono familiare, a tratti, il volto di gorgone che nella tenebra attende ogni slancio per voltarlo in lapide. Così io intravedo lo sguardo dei miei figli a dare senso e vita alle pagine che accumulo – se non ora, in un ideale futuro.

Oggi Lorenzo, il primogenito, compie diciott’anni. Dovrebbe essere un momento di festa, ma la vita ha voluto riservargli le prime dure prove per saggiare la sua tempra d’uomo. Io lo precedo e tento di esorcizzare la sorte. Ma forse è il contrario, è lui a guidarmi verso il futuro…

Questa manciata di versi, comunque, è per lui. Come sempre. Continua a leggere