Jonathan Franzen
Jonathan Franzen da alcuni è considerato ormai il più grande scrittore americano vivente, ma queste sigle vanno prese per quello che valgono: pezze giornalistiche per scribacchiare un pezzo che per un pezzo convincerà qualche pazzo in più ad affrontare il prezzo del libro che impazzerà a priori nelle classifiche. Io provengo soprattutto da letture di poesia e di saggistica varia, ma sto affrontando la narrativa in modo sempre più sistematico, per cui quest’anno farò il mio compitino e leggerò anche Purity, il suo nuovo, recente titolo. È già qui accanto che mi aspetta. Ma sono così diligente che nel frattempo mi predispongo all’incontro con Franzen rileggendo le considerazioni di un caro amico in merito alle Correzioni, il romanzo che lo ha reso celebre.
LE CORREZIONI
di Riccardo Ielmini
Prendiamo cinque americani. Chiamiamoli Alfred, Enid, Gary, Chip e Denise. Facciamo in modo che Alfred ed Enid siano due settantenni, marito e moglie, e che Gray, Chip e Denise siano i loro figli. Stabiliamo che Alfred sia stato un ingegnere di una compagnia ferroviaria e che ora, alla fine degli Anni Novanta (quando abbiamo deciso di collocare le vicende), sia affetto dal morbo di Parkinson. Stabiliamo anche che sua moglie (che l’ha sempre amato, benché non sempre ricambiata, anzi quasi mai, nel modo che “lei” avrebbe voluto) decida di compiere con il marito una crociera, lontano da casa loro (St. Jude, nel Midwest) e che durante questa crociera assapori l’estasi degli antidepressivi, ma anche la drammatica caduta in acqua del marito, salvato in extremis. Osserviamo poi le vicende dei tre figli. Il maggiore, il quarantatreenne Gary, l’uomo di successo, sposato con Caroline, con tre figli (Aroon, Caleb – omaggio allo Steinbeck della Valle dell’Eden? – e Jonah), alle prese con gli investimenti bancari e la possibilità di guadagnare altro denaro con la vendita di un brevetto paterno (vendita alla quale Alfred si oppone, per principio). Il secondogenito, Chip, brillante professore di college che, a sei mesi dal conferimento della cattedra, butta tutto all’aria per una relazione con una studentessa e finisce a New York a scrivere (a tentare di) una sceneggiatura, contrae debiti (coperti dalla sorella, Denise), ha una relazione con la moglie di un lituano e finisce per seguirlo in Lituania, dove mettere in scena una truffa in stile new economy. E infine la più giovane, la poco più che trentenne Denise, chef di successo, si sposa e divorzia subito, trova un nuovo finanziatore e si innamora della moglie, Robin, lasciandosi travolgere da una passione che la porterà al licenziamento. Pensiamo ora al giorno di Natale, alla festa della Tradizione, dei Valori, della Famiglia, e pensiamo anche che la madre, Enid, chieda ai figli di essere presenti, una volta ancora, a quella festa, perché «se non riesco ad avere la cosa vera, non voglio niente». Ecco, posto tutto questo, avremmo lo scheletro del romanzo Le correzioni, di Jonathan Franzen, edito negli Stati Uniti con grande successo di critica e pubblico, e pubblicato in Italia da Einaudi. Si diceva, avremmo lo scheletro (peraltro già corposo) di questa specie di odissea familiare, tutta americana. Lo scheletro di un’opera ben costruita ed articolata, nata, secondo le indicazioni dello stesso autore riportate al termine del volume, dal «nesso storiepersonaggi» rispetto ai quali l’autore si è posto vincoli classici di luogo, tempo ed azione. Da qui l’impressione che si tratti di un esempio quasi ottocentesco di romanzo sociale, così come parte della critica statunitense ha affermato. In effetti, i cinque capitoli che costituiscono il romanzo (preceduti da un breve preambolo e seguiti da un epilogo che sposta in avanti il contenuto delle vicende) appaiono come cinque singoli macro racconti, tenuti insieme da questa Penelope-Enid che aleggia, con la sua presenza matriarcale, sulle storie dei figli e del marito. È lei a tirare i fili, a non volersi rassegnare agli accadimenti della vita che, bruscamente o lentamente, hanno condotto alla (parziale) disgregazione della sua famiglia. Non a caso, dunque, Enid e Alfred vivono a St. Jude, nel Midwest, perché san Giuda è il patrono delle cause perse e tali paiono tutte le speranze di Enid, dalla guarigione del marito, alla riappacificazione con Caroline, la moglie di Gary, dal (mai raggiunto) successo intellettuale e professionale di Chip, alla (impossibile) maternità di Denise. È il nodo cruciale del libro, la ricerca di un cambiamento al corso irreversibile degli eventi, la volontà di imporre al mondo che cambia le proprie «correzioni». La bellezza del libro è situata nella sovrapposizione di questo elemento di traino, di fatto semplice e lineare (e perfettamente in linea con le strutture semplici della fiaba, dell’epica: la ricerca spasmodica di un happy end), con una tecnica narrativa molto organica, complessa e stratificata. La secchezza dei dialoghi si appoggia ad una struttura narrativo-descrittiva estremamente ricca, talora persino si ha l’impressione che sia “troppo” ricca e vitale, rispetto alle vicende desolanti che va narrando. Leggendo il libro sembra che l’autore abbia voluto, in modo corale e organico, dar conto dello smarrimento dei nostri tempi. I personaggi ci appaiono tutti smarriti o per motivi biologici (malattia) o morali. E ci appaiono tali, mentre sono collocati nella storia (nelle storie) solo in quanto partecipi di una famiglia, cioè della cellula base della società, dell’elemento vitale primo, di un habitat che dovrebbe, ontologicamente, tenere al riparo, proprio, dagli smarrimenti. Franzen gioca la carta del paradosso, della contrapposizione, ma non lo fa giocando con ironia. Ricorre al contrario all’impostazione realistica, storicamente contestualizzata e puntuale (si veda anche la precisa ricorrenza di terminologia scientifica, medica, economica, tecnologica), e così permette alle tessere di tenere, nel mosaico. Si è fatto riferimento, proprio in tal senso, alla vicinanza di questo romanzo alla trilogia di Philip Roth (Pastorale americana, Ho sposato un comunista, La macchia umana) e ad Underworld di Don DeLillo. In effetti, la coralità e l’ampiezza della visione sono elementi che consentono tale avvicinamento. Le correzioni, rispetto ai citati romanzi, resta più ancorato al presente, chiede di essere meno riassuntivo, non vuole dare giustizia della storia novecentesca dell’America, ma solo di fotografare uno status quo, facendo balenare i fiochi bagliori di una resistenza di valori (questo, sì, presente forse più in DeLillo che non in Roth). A tratti questa voluta concentrazione nel presente sembra quasi incepparsi, perdere fluidità, perdere corso – e questo è forse il limite (se proprio un neo va trovato) del volume. In ogni caso, Le correzioni resta un ottimo romanzo, un punto fermo della narrativa americana che testimonia (ulteriormente) la vitalità nell’ispirazione della letteratura anglosassone contemporanea.
Sperando che questa volta il posto dove. commentare sia quello giusto, devo dire che leggerò “Correzioni”, il libro di Franzen Jonathan, secondo alcuni il migliore scrittore vivente in America. Il post di stamattina sul blog di Andrea Temporelli non farà che affrettarne la scoperta e la lettura. Già avevo letto delle recensioni su questo libro che viene giudicato migliore del successivo Libertà e qui mi aveva molto incuriosito un termine che a me risulta nuovo vale a dire Anedonia che dovrebbe significare la non capacità di considerare come piacevoli dei contesti e delle attività che invece lo sono. Lo leggerò anche perchè mi piaccciono le storie che parlano delle famiglie e dei rapporti tra i loro componenti
Grazie Luisa del commento. Mi dispiace che qualche tuo altro spunto si sia disperso nei social. Se avrai voglia, mi farà piacere sapere il tuo giudizio diretto e schietto su Franzen, quando lo avrai letto – senza fretta.
La sola mole di questo libro mi getta nel panico. Sono un asino. Ma proprio non riesco. Ultimamente poi, ( da un anno circa) leggere anche solo due righe di un qualunque romanzo, soprattutto di area anglosassone mi fa salire la noia. “Jack prese le chiavi e uscì di casa”, già mi basta per dormire tre ore. Questa rappresentazione – dovuta, sia chiara, fedele e che ci si aspetta in linea di massima da un romanzo moderno- del reale, lo trovo per lo più noioso. Cioè a volte mi chiedo: se valga davvero la pena scrivere un romanzo quando la molla che prevale è praticamente consegnata nella sola sequenza di effetti e di cause, più che al linguaggio in sè, al montaggio, a quell’eccesso o eccedenza che svirgola dalla struttura consueta e crea qualcosa di davvero potente, efficace, come una pennellata – serie di pennellate per la verità – fuori luogo, che rende quel quadro più potente se quella pennellata non fosse mai stata data ( mi viene in mente Bernhard a partire da Amras, o Jelineck con La Voglia ( per me straordinario), e per il quadro a Francis Bacon o Freud )
la mia sarà una fase, senz’altro. Detto questo devo dire che La macchia umana è tra i più bei libri che abbia mai letto. Non si può farne un riassunto esattamente come accade per le sinfonie: o le rimetti sù e le riascolti e se solo provi a fischiettarle per farle apprezzare a qualcuno, fai solo la figura dello scemo. De Lillo, personalmente, l’ho apprezzato tantissimo in un suo romanzo considerato poco o niente credo, Mao II: tanto breve quanto composto da una densità pari a un buco nero. Così Mentre morivo di Faulkner, che io credo McCarthy conosca a memoria… Franzen forse lo leggerò, ma per ora mi è antipatico; la poesia la preferisco di gran lunga, primo perché è corta perdio, poi perché è, – quando per me è buona – inaspettata. I salti che compie bruciano lo spazio e il tempo, mi evitano la macchina, mi evitano di andare da A a B, mi risparmiano il dovermi trascinare nella rappresentazione minuziosa del reale, il suo funzionamento che francamente, adesso, mi dà alla nausea. Come tale, letteratura come quella di Carver, un tempo per me una vera e propria rivelazione, più di Hemingway, oggi, dico oggi, per adesso, è cloroformio puro ( per non parlare delle sue poesie che se anche le ha lette Moretti, per carità, le trovo a dir poco ridicole) ….Roth, non so, al suo meglio ha qualcosa di Kafka, qualcosa che esula in maniera sofisticata dalla pura rappresentazione della realtà, dal romanzo concepito come storia delle tragedie umane comuni: ha qualcosa di più periferico, accarezza un qualche tipo di surrealtà: le sue situazioni, le atmosfere, di per sé sono già significanti, sono sovraccariche di qualcosa che aleggia, che sfugge agli stessi personaggi i quali, a loro insaputa, ne sono immersi…mah, comunque, adesso, non che freghi a qualcuno, io leggo poesia, breve e d’impatto ( tranne gli Haiku che ancora non ho capito se sono degli scherzi a parte) tanto quanto l’energia che dovrebbe esprimere una buona idea pubblicitaria. Un calcio nei denti. O, detto meglio, in riferimento alla poesia: un lento calcio nei denti. Ecco.